In ricordo di Gianni Minà, che ci ha portato sulla sierra con Fidel
Molto dobbiamo a Gianni Minà. Solitamente associamo l’idea di Occidente all’Europa continentale e al mondo anglosassone. L’Occidente, tuttavia, si articola anche in un altro universo, quello delle lingue iberiche e dell’America Latina. Già, il Centro e Sud-America come Sud del mondo e, insieme, come Occidente. In quei mondi vocaboli e concetti quali libertà, popolo, persino populismo, giustizia, patria, individuo risuonano con altre valenze e altri significati, rispetto ai nostri. Altri, ma non estranei. Colmi di vita (e, insieme, di povertà, di sangue e di morte), di pensiero, di letteratura, psicoanalisi, musica, sport, filosofia, teologia, pratiche religiose.
E Gianni Minà ha rappresentato un ponte, un ponte formidabile verso quei mondi.
A essi mi sono accostato, da ragazzo, per il tramite della teologia della liberazione, di un libro degli Editori Riuniti, Scritti politici e privati di Che Guevara. Con un intervento di Ernesto Sábato. Prefazione di Saverio Tutino – e, appunto, di Minà.
Degli Scritti di Guevara è rimasta scolpita nella mia mente, ad esempio, la “potente 2”, il nome della moto con la quale il giovanissimo allergologo girò in lungo e in largo la sua prima patria, l’Argentina. E, poi, un paragrafo (che dà il titolo a un altro suo libro di Cronache della rivoluzione cubana): Sulla sierra con Fidel.
Così appresi che i primi moti rivoluzionari dell’isola erano caratterizzati da due movimenti, corrispondenti a due strategie di lotta dissimili: quella del llano (della pianura, una sorta di savana), più di tipo terroristico, e quella della sierra (la montagna, le alture), vera e propria guerriglia di popolo, guidata da tre comandanti: Fidel, Raúl e il Che. Già, un moto rivoluzionario nel quale l’individuo, gli individui, a differenza, poniamo, di quello maoista, hanno avuto un ruolo decisivo.
Un tassello importante per chi, come me, ha una visione liberale della politica e della sinistra. E la sovietizzazione del governo che sarebbe scaturito da quel moto rivoluzionario non era affatto scontata e inevitabile; né era ineludibile il suo approdo al “socialismo reale”. Purtroppo su quell’evento di libertà, su quell’anelito e su quella libertà che si manifestava come evento, su quello squarcio rispetto alle implacabili e rigide logiche della realtà economica, politica e ideologica del nostro globo, nel giro di alcuni anni tornarono a prevalere le logiche di sempre, quelle “della necessità”.
Come è noto, Marx amava la frase di Epicuro secondo la quale la necessità è un male, un male che rende infelici, ma non è necessario vivere nella necessità.
Ecco, rispetto alla “necessità” del regime de L’Avana, probabilmente Minà aveva una visione lontana dalla mia. Rispetto a quell’evento di libertà della seconda metà degli anni Cinquanta, tuttavia, ci saremmo trovati insieme: sulla sierra con Fidel.
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