In Europa cresce l’argine
dei Verdi alle destre
populiste e xenofobe

Siamo “un movimento di sinistra ecologista, liberale, pro-europea”. Così Annalena Baerbock, leader dei Verdi tedeschi, in un’intervista al Corriere della Sera pubblicata nel giorno dell’ennesimo trionfo elettorale dei “Gruenen” balzati in Assia dall’11 al 20%. Le parole di Baerbock, la sua faccia di donna trentenne, spiegano molto dell’ascesa del partito ecologista in Germania e in molti altri Paesi europei, e raccontano anche, per contrappunto, del perché la sinistra italiana è oggi ridotta allo stremo.
I Verdi in Europa sembrano rappresentare l’unico argine al dilagare delle destre sovraniste e xenofobe, la sola risposta elettoralmente convincente, a sinistra, al declino irresistibile dei partiti socialisti. “Funzionano” perché della sinistra condividono molti dei valori – società aperta, solidarietà sociale, sensibilità cosmopolita – ma sono del tutto liberi dalle visioni ideologiche che hanno plasmato, nel bene e nel male, la sinistra novecentesca e la fanno incapace di calarsi nei problemi, nelle sfide del nuovo secolo. Nell’Europa attuale con rare eccezioni i partiti socialdemocratici sono in caduta verticale e le forze della cosiddetta sinistra radicale – post-comunista o genericamente anti-capitalista – restano marginali: a condannare i primi, un moderatismo e un’identificazione pluridecennale con l’establishment che li rende impresentabili come interpreti delle preoccupazioni sociali, dell’incertezza del futuro che assediano i popoli europei, non credibili come protagonisti di una stagione di riscatto del “vecchio continente” dai rischi di un declino epocale; a imprigionare la seconda in ruoli e consensi irrilevanti, la ripetizione pavloviana di un antagonismo – no alla globalizzazione perché inevitabilmente liberista: tipo il grido di Mafalda “fermate il mondo, voglio scendere” – che parla a pochissimi e che spesso, dal francese Melanchon all’italiano Fassina, le fa imboccare la strada senza uscita di un inquietante sovranismo “rosso”.
I Verdi europei sono altrove. Sono, per l’appunto, “ecologisti, liberali, pro-europei”: pensano e dicono che proteggere il clima e l’ambiente è un’assoluta urgenza non solo etica, ma sociale ed economica; pensano e dicono che i diritti delle persone – i diritti umani di chi fugge da miseria e da guerre, l’eguaglianza come parità di diritti civili e di opportunità sociali tra tutti i membri di una comunità – sono il primo terreno di impegno e di proposta di una sinistra che non voglia perdere se stessa; pensano e dicono che l’Europa unita, certo un’Europa da riformare e democratizzare nelle sue politiche e istituzioni, è un irrinunciabile orizzonte di progresso. Su questa base i Verdi europei hanno costruito un rapporto stretto e solido con i settori più vitali e dinamici della società e della stessa economia: con le giovani generazioni, “europeiste” e “liberali” non per scelta politica ma per antropologia; con milioni di cittadini per i quali l’ambiente è irrinunciabile qualità della vita, è consumo critico e consapevole, è presidio decisivo della salute personale e collettiva; con la rete sempre più fritta e innovativa di imprese “green”.
La “differenza” dei Verdi rispetto alla sinistra tradizionale appare tanto più profonda se si guarda ai “resti” della sinistra italiana. Che è zero “ecologista”, per la sua storia è poco “liberale”, è tiepidamente “pro-europea”. E che – qui la differenza si fa abissale – nei sui vertici è immancabilmente maschile.
Resta una domanda inaggirabile: perché in Italia una sinistra così finora non s’è vista? Non c’è, io credo, una sola risposta, ne azzardo due che mi paiono le principali: da una parte i Verdi italiani – che trent’anni fa furono tra i primi in Europa a raccogliere i frutti elettorali dell’emergere “politico” dei temi ambientali – non sono riusciti a liberarsi delle stimmate iniziali di gruppo minoritario e un po’ settario che segnava ai loro esordi i gruppi dell’ecologia politica; dall’altra hanno pagato un prezzo alto, in questo caso senza colpa, alla desolante arretratezza culturale delle classi dirigenti italiane, comprese quelle di sinistra (politica, sindacato, media…), che ancora oggi vedono l’ecologia come un affare di nicchia, più o meno come l’ossessione “naïf” e anti-moderna di chi vorrebbe ritornare al tempo delle candele. La speranza è che le notizie elettorali che arrivano da “oltralpe” – Verdi spesso con più voti delle vecchie “corazzate” socialiste – sommate all’evidenza del coma profondo in cui versa la sinistra italiana, muovano le acque anche a casa nostra: e che magari, chissà, per le prossime elezioni europee nasca finalmente una proposta chiara e forte “ecologista, liberale, pro-europea”. E declinata, aggiungo, al femminile.