Il virus per ora rallenta, ma perché ci siamo trovati impreparati?

Il numero di contagi da SARS-CoV2 in Italia ieri è risultato un po’ meno grande di quelle dell’altro ieri: ma 5.560 restano ancora tantissimi. E, in ogni caso, è ancora presto per poter affermare che la curva di crescita dei contagiati sta per arrivare al picco. Dobbiamo portare ancora molta pazienza, ma molte analisi dimostrano che l’epidemia è in fase di rallentamento e che le norme varate dal governo e, molto confusamente, dalle regioni iniziano a funzionare.

D’altra parte da ieri l’Italia non è più il paese al mondo che fa registrare il maggiore aumento dei contagi: con 8.594 nuovi casi, il triste primato è stato assunto dagli Stati Uniti, dove la curva di crescita ha ancora un andamento esponenziale.

Anche il numero di morti (651) in Italia tende a essere un po’ più basso di quello del giorno precedente. Ma sono arrivati a un totale di 5.576: ancora troppi. Tutte morti inaccettabili.

Intanto nel mondo i casi di infezione sono arrivati a 332.134, con 14.426 morti. Più di un terzo dei decessi sono italiani.

Viviamo, certamente, in una situazione grave e rara. Ma non unica. Non è per un maldestro tentativo di consolazione che ci accingiamo a ricordare quanto devastanti siano state altre pandemie del passato. Ma, al contrario, è per incolpare noi stessi: non abbiamo capito gli ammonimenti della storia.

Spagnola, asiatica e Hong Kong

Esattamente un secolo fa, nel 1920, veniva a termine il ciclo della cosiddetta “spagnola”: un’epidemia influenzale, con sintomi simili all’attuale ma causata da un virus molto diverso, l’H1N1 tipico della “normale” (tra poco vedremo perché le virgolette sono necessarie) influenza. In due anni, a partire dal 1918, quella pandemia contagiò, si calcola, un terzo dell’intera popolazione mondiale, mietendo da 50 a 100 milioni di vittime. In Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, morirono in 600.000. Forse la guerra che stava per concludersi ha reso meno evidente quella tragedia.

coronavirusUna seconda, grande pandemia, sempre di tipo influenzale, si è verificata molto più di recente, nel 1957. Fu chiamata “asiatica”, colpì il 20% della popolazione mondiale, uccidendo tra forse 2 milioni di persone. In Italia le vittime furono 30.000.
Una terza e ancora più recente pandemia mortale è stata quella denominata “Hong Kong”, anche questa causata da un virus di tipo influenzale, l’H3N2. Non sappiamo esattamente quanto furono i morti, forse meno di 2 milioni, ma qualcuno avanza l’ipotesi che tra il 1968 e il 1970 i milioni di decessi potrebbero essere stati addirittura 4. Di certo la “Hong Kong” in Italia fece 20.000 morti. Quasi quattro volte più delle vittime fino a ora attribuite al SARS-CoV2.

Le vittime dimenticate

Ripetiamo, questa storia non la raccontiamo per minimizzare la vicenda tragica che stiamo vivendo. Ma al contrario, per alzare il dito accusatorio contro la nostra memoria: come abbiamo fatto a dimenticare? Come abbiamo fatto a non ascoltare gli avvisi che ci venivano dalla comunità scientifica quando, soprattutto in occidente, grazie ai vaccini pensavamo di aver sconfitto per sempre il quarto cavaliere dell’Apocalisse, le malattie infettive? Inutilmente dopo i casi dell’AIDS causato dal virus HIV o di Ebola gli scienziati andavano sostenendo di non abbassare la guardia, perché una grande pandemia, mortale come quelle che abbiamo ricordato, erano ancora possibili. Anzi, più che mai possibili, vista la continua invasione di nuovi ecosistemi e l’enorme aumento delle persone che viaggiano (in aereo, non sui barconi) da un capo all’altro del mondo, consentendo agli agenti patogeni di spostarsi.

Ilaria Capua

Come va sostenendo la virologa Ilaria Capua, nel caso delle epidemie di peste nel passato, l’agente patogeno camminava a piedi. Oggi gli agenti patogeni viaggiano in aereo.

Noi sapevamo

Il j’accuse vale anche per chi, come chi scrive, è un giornalista che si occupa di scienza. Noi (intendo tutti i miei colleghi) lo sapevamo. Lo abbiamo anche scritto. Ma non abbiamo saputo comunicare il pericolo. Non con sufficiente forza, almeno.
Così come non siamo, forse, riusciti a comunicare le omologie e le differenze tra i virus della “normale” influenza e il coronavirus.

Anche la “normale” influenza uccide e non poco (di qui la necessità di virgolettare l’aggettivo). Dai dati ISTAT apprendiamo, infatti, che la “normale influenza” tra il 2007 e il 2017 ha ucciso direttamente ogni anno in media 460 italiani. Ma indirettamente il virus stagionale uccide tra 4.000 e 10.000 persone ogni anno, con picchi che raggiungono anche le 12.000 unità. Ed è anche contagioso, perché manda a letto, ogni anno, un numero di italiani compreso tra 2,4 e 9 milioni.
La contagiosità della “normale” influenza è altissima, anche se la letalità (le persone uccise rispetto ai contagiati) è bassa: 0,1%.

Le analogie tra il virus dell’influenza e il SARS-CoV2 riguardano anche i sintomi della malattia, che interessa le vie respiratorie. Entrambi nei casi gravi possono causare polmoniti, anche se quelle indotte dal coronavirus sono più gravi.

Influenza stagionale e Covid -19

Ma allora se questi virus, nei loro effetti, si somigliano tanto perché abbiamo una percezione diversa della loro pericolosità? Perché il mondo è in fortissima ansia per il coronavirus mentre non molti anni fa, nel 1969, quasi non si è accorto della “Hong Kong”? Il quasi è d’obbligo, perché anche quella forma acuta di “normale” influenza destò tensione e paura. Ma nulla di paragonabile a quella che stiamo provando per l’attacco del nuovo coronavirus. D’altra parte accettiamo ogni anno senza ansia eccessiva l’arrivo di un nuovo ciclo influenzale, ben sapendo che mieterà solo in Italia alcune migliaia di persone.

coronavirus, crisiIl virologo Roberto Burioni ci ha spiegato due dei tre perché. Il primo è che il virus della “normale” influenza arriva ogni anno, sia pure mutato, e ci trova tutti un po’ immunizzati. Il rischio individuale di complicazioni, per ciascuno di noi, è decisamente più basso.
Il secondo motivo è che contro il virus della “normale” influenza abbiamo un vaccino. Chi vuole può evitarla (con alto grado di successo). Insomma, ci sentiamo in grado di contrastarlo, anche se non sempre lo mettiamo in atto il contrasto.

Qui entra in gioco il terzo elemento: la percezione del rischio. Noi al virus della “normale” influenza siamo abituati, lo incontriamo (anche se nelle sue forme mutate) ogni anno. Non ci coglie di sorpresa. Così lo accettiamo, anche nelle sue tragiche conseguenze.

Rischio di pandemie catastrofiche

E, tuttavia, le tre grandi pandemie influenzali che abbiamo ricordato sono lì ad ammonirci che anche il nostro regolare ospite stagionale può presentarsi talvolta in maniera spaventosamente aggressiva. Come e più dell’attuale coronavirus.

Questo ci dicono i medici e gli scienziati da alcuni decenni. Pandemie catastrofiche sono oggi più che mai possibili: attrezziamoci, per prevenirne l’arrivo e per gestirle nel modo migliore in caso di emergenza. Questi medici e questi scienziati non solo non vengono ascoltati, ma vengono spesso scherniti. E persino accusati: siete al soldo delle multinazionali, volete far loro guadagnare montagne di soldi con il racconto del rischio. È successo, anche in Italia, anche sui giornali di sinistra, per da ultimo nel caso della SARS (2002) o della cosiddetta “influenza suina” (2009).

Non sappiamo se il debole segnale di ieri sia l’annuncio dell’inizio della fine del rischio SARS-CoV2 in Italia. Lo speriamo caldamente. Anche se non dobbiamo cadere nella trappola delle false speranze. Continuiamo a restare a casa, con pazienza e fiducia. E impieghiamo le molte ore a disposizione tra le mura domestiche per cercare, ognuno nel suo ruolo, di prevenire e, comunque, di non farci trovare impreparati davanti alla pandemia prossima ventura.