Imperdibile “Marx può aspettare”
Con Bellocchio la vita diventa cinema

Marx può aspettare” è un bellissimo titolo che necessita di una doppia spiegazione. Come ricorderanno i conoscitori del cinema di Marco Bellocchio, è una battuta pronunciata da Lou Castel in “Gli occhi, la bocca”, film del 1982. Castel interpreta Giovanni Pallidissimi (nei film di Bellocchio i cognomi dei personaggi sono spesso “a chiave”, allusivi), attore di cinema in crisi costretto a ritornare in famiglia dopo il suicidio del fratello gemello Pippo. Trentanove anni dopo, Marco riprende quella battuta, spiega le circostanze in cui venne pronunciata e per la prima volta racconta in modo “documentaristico” ciò che allora, nel vecchio film, veniva adombrato sotto il velo della finzione.

Chi conosce bene Bellocchio lo sa da tempo, altri magari l’hanno intuito vedendo proprio “Gli occhi, la bocca”: Marco, nato il 9 novembre 1939 a Bobbio, provincia di Piacenza, da una famiglia borghese e intellettuale, aveva un fratello gemello, Camillo. “Marx può aspettare” è la storia di Camillo, che si è suicidato nel 1968, anno cruciale. Nel ’68 i due avevano 28 anni, quasi 29, e Marco era già “lanciato” nel mondo del cinema: aveva già diretto due film, il folgorante esordio “I pugni in tasca” e l’altrettanto epocale “La Cina è vicina” (tra parentesi: due dei titoli di film più saccheggiati e scimmiottati dai titolisti dei quotidiani, quorum nos, in tanti anni di “Unità”); aveva studiato per un breve periodo a Londra, aveva frequentato il Centro Sperimentale a Roma iscrivendosi a Recitazione (sognava di fare l’attore, da qui il mestiere di Giovanni Pallidissimi) e passando poi a Regia grazie all’intuizione di un professore acuto ed eccezionale, Andrea Camilleri. Per un ragazzo della provincia emiliana nato prima della guerra, si può dire che aveva “girato il mondo”, che ce l’aveva fatta. Camillo invece era rimasto là, a Bobbio, assieme a una famiglia tutt’altro che serena. E nel ’68 – lo racconta il film – aveva contattato il gemello chiedendogli aiuto, una “dritta” per lavorare anch’egli nel cinema, forse un’implicita preghiera di raggiungerlo, di stare al suo fianco. Marco, allora affascinato dalla sinistra extra-parlamentare (avrebbe brevemente militato in Servire il Popolo), gli aveva risposto – sempre parole sue – con parole molto “ideologiche” sulla necessità di lottare contro il sistema. La risposta di Camillo era stata lapidaria: “Marx può aspettare”. Come dire: abbiamo, ho, altri problemi. Qualche tempo dopo si è ucciso.

Il suicidio di Camillo

Quindi “Marx può aspettare” è una frase di Camillo Bellocchio, morto troppo giovane con un fardello di dolori troppo pesanti per lui. E il film è su di lui: un ragazzo bellissimo sulla cui morte la famiglia Bellocchio, a distanza di decenni, torna a fare i conti.

Il film si apre con un pranzo di famiglia di qualche anno fa, organizzato proprio da Marco che già sentiva l’urgenza, la necessità di questo film. Nel giro di questi (pochi) anni, il film si è sedimentato. Intanto il regista realizzava “Il traditore”, su Tommaso Buscetta, e preparava un altro “ritorno”, la serie tv su Aldo Moro che sta attualmente girando. Sullo sfondo, “Marx può aspettare” cresceva, cresceva.

Prima abbiamo usato il termine “documentaristico” per intenderci: tecnicamente siamo davanti a un documentario, costruito su tre livelli. Il primo sono i materiali di repertorio, i filmati d’epoca che Bellocchio è riuscito a recuperare. Il secondo sono le interviste ai familiari, i fratelli, le zie, alcuni dei quali già apparsi in altri suoi film. Il terzo, che rende “Marx può aspettare” molto più di un semplice documentario, è proprio il cinema di Marco Bellocchio. Spezzoni di suoi film fanno capolino qua e là nel corso della narrazione, e l’effetto è straordinario: i film illuminano i fatti successi quasi sessant’anni fa, e i fatti – le vicende familiari del regista – illuminano i film che il regista stesso ha realizzato nel corso del tempo. Tanti artisti sono, di fatto, autobiografici e alla fin fine tutti gli artisti parlano di se stessi. Ma in Bellocchio – come in un altro grande regista italiano, Gianni Amelio – l’autobiografia è un dato al tempo stesso sommerso e invasivo, un tessuto connettivo che innerva l’opera anche quando rimane invisibile. In Bellocchio la vita diventa cinema e il cinema è sempre vita. Il dato autobiografico “lavora” dentro il cinema di Bellocchio esattamente come i materiali d’epoca (i filmati dell’Istituto Luce, lo spezzone del “Monello” di Chaplin) erano “l’Inconscio” della storia in “Vincere”, il film sul giovane Mussolini.

“Marx può aspettare” getta una luce magari non nuova (perché la storia di Camillo era già, almeno in parte, nota) ma rivelatrice su tutta l’opera di questo splendido regista. Verrebbe voglia di forzare i termini della lettura critica e di affermare che questo documentario così intimo e personale sia il capolavoro di Marco Bellocchio. Non è così, perché la bellezza di film come “I pugni in tasca”, “L’ora di religione”, “Buongiorno notte” e gli stessi “Vincere” e “Il traditore” rimane intangibile. Però si può dire che “Marx può aspettare” è un film-ologramma nel quale si intravede tutto il cinema di Bellocchio, quindi un titolo fondamentale per capirlo, un ottimo viatico per entrare nella sua opera e vederla/rivederla in modo più lucido. Insomma, non si fosse ancora capito, un film imperdibile. È nei cinema, dopo il passaggio a Cannes dove Marco ha ricevuto la Palma alla carriera. Guai a perderlo.