Immigrazione: il fallimento dei “pugni sul tavolo” di Giorgia Meloni
Quando si dice che si sbattono i pugni sul tavolo…Con questa bellicosa intenzione era partita Giorgia Meloni per il Consiglio Europeo di Bruxelles che è cominciato ieri e si concluderà oggi. Che pugni avrebbe dovuto sbattere la presidente del Consiglio? Gran parte della sua relazione alla Camera e delle conclusioni al dibattito alla Camera e al Senato in preparazione del vertice era stato dedicato all’immigrazione. Con toni molto duri e immotivatamente innervosita – chi l’ha sentita, specie a Palazzo Madama, se ne è stupito e anche un po’ preoccupato – Meloni dopo essersi prodotta nella riproposizione dell’imbarazzante excusatio non petita sulle responsabilità del governo nella tragedia di Cutro che recita da settimane (dite che abbiamo voluto far morire i migranti e così insultate me, noi, la Guardia Costiera, la Guardia di Finanza, le Forze dell’Ordine e l’Italia, pardon: la Nazione) aveva minacciato i fatidici pugni per ribaltare l’ordine del giorno del Consiglio mettendo l’immigrazione al primo posto in funzione del “nostro interesse nazionale”. Che nel meloni-pensiero di questi tempi significa com’è noto innanzitutto prendersela con i poveri cristi che approdano sulle nostre coste e dividere equamente le colpe dei guai cui vanno incontro tra la loro caparbietà a scappare mettendo in pericolo i figli e la nequizia dei trafficanti di uomini “che inseguiremo in tutto l’orbe terraqueo”. Dixit.

L’inspiegabile soddisfazione della premier
Quale risultato ha avuto tanta passione? Le tre frasi seguenti che – stando alle indiscrezioni – compariranno nelle conclusioni del vertice a proposito, appunto, dell’immigrazione: “La presidenza del Consiglio e la Commissione hanno informato il Consiglio europeo dei progressi compiuti nell’attuazione delle sue conclusioni del 9 febbraio 2023. Il Consiglio europeo chiede rapidi progressi su tutti i punti concordati. Tornerà sulla questione su base regolare”. Vogliamo “rapidi progressi” (e chi non ne vorrebbe, su qualunque argomento?) e “ne riparleremo”. Punto. E basta.
Basta? A Giorgia Meloni è bastato, giacché nel “punto con la stampa” ha dichiarato, testuale, che “posso dirmi soddisfatta della bozza di conclusioni che chiede alla Commissione di procedere spedita”. Il sacro furore esibito nel Parlamento italiano si è spento nel palazzo del Consiglio di Bruxelles senza nemmeno lasciare una traccia di fumo. Quello che resta nel carniere del governo di Roma sono i generici impegni che erano stati assunti nel Consiglio precedente, quello del 9 marzo, in materia di rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, di cooperazione con i paesi di partenza e di transito con incentivi per l’emigrazione regolare da quelli che collaborano, di politiche comuni in fatto di rimpatri, e simili. L’unico aspetto concreto apprezzabile dal punto di vista italiano era il riconoscimento della “specificità delle frontiere marittime”, che rappresentano il grosso dell’esposizione del nostro paese agli arrivi di migranti. Quegli impegni erano stati giudicati, con molto ottimismo, “passi importanti” verso le posizioni del governo di Roma.
La presidente del Consiglio poi si era fatta forte della lettera in cui la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha individuato “quattro aree per un’azione immediata” delle istituzioni di Bruxelles, tre delle quali corrispondono genericamente a istanze avanzate dal governo di Roma – rafforzamento dei confini esterni, rimpatri rapidi, cooperazione tra i partner per la governance delle migrazioni – e una contiene una implicita critica alla gestione del fenomeno da parte italiana: i cosiddetti “movimenti secondari”, ovvero i passaggi in altri stati dei migranti già arrivati in un paese europeo (molto spesso, se non quasi sempre l’Italia). Problema che ha creato e crea notevoli frizioni, specialmente, come è noto, con la Francia.
Quest’ultima questione evoca il problema della riforma del protocollo di Dublino, sul quale il governo Meloni non pare particolarmente sensibile, un po’ perché la sua impostazione astrattamente rigorista ha come fine – ribadisce lei ad ogni pie’ sospinto – il non-arrivo dei migranti piuttosto che il loro destino una volta arrivati, un po’ perché i governi del gruppo di Visegrád, amici e alleati di chi comanda oggi a Roma, quel protocollo vogliono che resti così com’è visto che di ricollocazioni a casa loro non vogliono sentire neppure parlare.
La questione del protocollo di Dublino
A proposito del protocollo di Dublino, si è saputo che la prossima settimana la questione del suo superamento approderà al Parlamento europeo con una risoluzione che, secondo le indiscrezioni, prevedrebbe l’introduzione di quote per cui solo il 20% dei migranti sarebbe tenuto a restare nel paese di arrivo, mentre l’80% verrebbe distribuito tra gli altri paesi dell’Unione. Vedremo come voteranno gli eurodeputati della destra italiana: in favore di una misura che favorisce certamente il nostro paese oppure, come in passato, obbedendo alla logica delle alleanze con Visegrád. Forse anche di questo hanno parlato Meloni e il premier polacco Tadeusz Morawiecki, l’amico tra gli amici che la capa di Fratelli d’Italia ha voluto vedere per primo in un incontro bilaterale, seguito a ruota dal greco Kyriakos Mitsotakis, anch’egli campione della destra più destra. Ieri sera, poi, c’è stato anche un incontro, per una volta in un clima sereno, con Emmanuel Macron. Il presidente francese, hanno fatto sapere ambienti dell’Eliseo, avrebbe perorato la causa dell’energia nucleare trovando nell’interlocutrice orecchie attente.
Incassata la sua ingiustificatissima “soddisfazione” per il vuoto pneumatico del vertice sul tema immigrazione. Meloni ha detto la sua sugli altri temi, quelli che sono veramente al centro del Consiglio europeo. Vedremo oggi quale sarà la “postura” (per usare il brutto termine introdotto nel lessico politico dai governanti attuali) sui vari dossier. Sull’Ucraina, ovvero la prosecuzione della escalation di forniture d’armi e l’ampliamento delle sanzioni a Mosca, no problem. Solo la necessità, forse, di rassicurare i partner sulla fedeltà atlantica dei leghisti che non perdono occasioni per segnalare dissensi. Il tono della discussione lo ha dato il consueto, ennesimo intervento dell’ospite fisso, ormai, degli appuntamenti dell’Unione Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino ha lamentato l’esistenza di “cinque ritardi” che prolungano la guerra contro la Russia: il primo e il secondo riguardano la fornitura di missili a lungo raggio e di moderni aerei da combattimento, il terzo la timidezza occidentale nel comminare nuove sanzioni a Mosca, il quarto i tempi “troppo lunghi” previsti per i negoziati di adesione dell’Ucraina alla UE, il quinto la mancata individuazione, da parte dell’occidente, di una “formula” per la sistemazione dell’area dopo l’immancabile vittoria sui russi.
A questo proposito Zelensky ha proposto una “conferenza di pace” presieduta da lui stesso che, essendo impossibile tenerla a Kiev per ragioni di sicurezza, dovrebbe essere ospitata in una delle capitali europee. Nelle conclusioni del Consiglio, oltre alla scontata condanna dell’aggressione russa, si certifica l’appoggio dell’Unione al piano di pace in 10 punti presentato qualche mese fa da Kiev. Non un cenno, invece, all’iniziativa cinese. In un documento a parte sono poi quantificate nuove massicce forniture all’Ucraina di proiettili di artiglieria e di missili a corto raggio.
Degli altri temi, la transizione ecologica e la riforma (eventuale) del Patto di Stabilità si parlerà oggi. Meloni ha già avanzato le riserve italiane sul passaggio completo all’auto elettrica nel 2035 e all’efficientamento energetico delle abitazioni.
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