Il virus e la fine del neoliberismo, come redistribuire la ricchezza

In una crisi ciò che era prima inconcepibile, liquidato dai conservatori come impraticabile o irrealistico, diviene, all’improvviso, inevitabile. Come un cambio nel governo economico mondiale e nazionale e, con esso, la fine del neo-liberismo. Ne scrive una garbata epigrafe il Financial Times. Il quotidiano economico britannico osserva: “Riforme radicali, che invertano la prevalente direzione politica delle ultime quattro decadi, devono essere messe sul tavolo. I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia. Essi devono vedere i servizi pubblici come un investimento, piuttosto che come una passività. I governi – incalza la testata che da centotrent’anni si occupa di economia e finanza – dovranno trovare modi di rendere il mercato del lavoro meno insicuro. La redistribuzione della ricchezza sarà di nuovo inserita nell’agenda; i privilegi dei senior e dei ricchi saranno messi in questione”.

La conclusione dell’editoriale del Financial Times è questa: “Politiche fino a poco tempo fa considerate eccentriche, come un reddito minimo universale e tasse sulla ricchezza, dovranno essere inserite nel mix”. Il titolo dell’articolo è “Il virus mette a nudo la fragilità del patto sociale”.

Un nuovo scenario

Molti affermano che la pandemia non va politicizzata. Il COVID non va usato, ma non è offensivo riflettere su misure anti-crisi imposte temporaneamente che potrebbero divenire permanenti, ad esempio. Nessuno sa cosa ci aspetta di fronte a una pandemia e alle sue conseguenze lunghe chissà quanto, alcuni mesi, un anno, forse addirittura di più. Parlarne in questa chiave serve. Il futuro è incerto e il Financial Times ha scritto che affrontarlo ognun per sé sarebbe una follia, anche per chi vuole fare buoni affari.

Il neo-liberismo è finito perché ha generato tagli drastici, privatizzazioni, immense sofferenze a buona parte degli esclusi dal famoso 1% che detiene la ricchezza senza neppure, alla fin fine, sapere che farne se non congelarla in buona parte nei vari paradisi fiscali.

Rutger Bregmam, scrittore e storico olandese, 32 anni, autore del libro di successo “Utopie per realisti” scrive su De Correspondent che non si capisce perché si sia arrivati a questo punto se non si fa un salto indietro di circa settant’anni, nel 1947, nel villaggio svizzero di Mont Pèlerin dove il filosofo Friedrich Hayek e l’economista Milton Friedman si proclamarono neoliberali, criticando le idee di John Maynard Keynes, lo studioso britannico campione di uno Stato responsabile del benessere delle persone, di una forte tassazione e di una robusta rete di servizi sociali.

All’inizio Friedman e colleghi furono visti come ribelli, e in effetti andavano per quell’epoca controcorrente, ma non per molto. Per anni fu tutto un gran coro di destra e moderato a cantare contro uno Stato tiranno che non deve interferire con la libera impresa.

Venne il 2008. Il crollo della banca d’affari Lehman Brothers aprì la più grave crisi dopo la Grande Depressione. Eppure si andò avanti come prima, la sinistra perse consensi, furono imposti negli USA e in Europa tagli all’educazione, alla sanità, alla sicurezza sociale. Era il prezzo per poter continuare una politica economica neo-liberista.

Il terremoto Covid19

Adesso ci risiamo, un altro terremoto economico. Dopo dodici anni la povertà, e anche la miseria, pestano duro per milioni di famiglie. Questa volta però c’è un clima diverso, una serie di fattori che concorrono al cambiamento, nessuno di per sé decisivo, tutti concausa del crollo di un muro. Una nuova coscienza ambientale, un backoffice finanziario e di mecenati che ha, per varie ragioni, scelto un’economia sociale, di reciprocità, un pontificato che svolge la sua missione apostolica, certamente in linea col magistero della Chiesa, ma con inusitato vigore, senza tacere sulle disuguaglianze e tante altre circostanze ancora.

Non ultima, banale motivazione fu la presentazione all’opinione pubblica del perché dei tagli che seguirono il 2008, prospettati con la gravità di un antico archiatra che impone dolorose cure. Il gioco neo-liberista poteva andare avanti. Pochi capivano cosa fossero queste obbligazioni collaterali al debito che facevano ingrossare le file alle mense dei poveri, né cosa fosse il default dei derivati creditizi che aumentò, per mancanza di risorse di base, le morti e le patologie pediatriche in Grecia, Paese soffocato più degli altri dagli interessi da pagare.

Bisognava tornare con i libri contabili in ordine, i famosi “compiti per casa” del ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.

Il trucco non funziona oggi, perché capiamo tutti cosa è un virus, una pandemia, la sofferenza, la morte, l’isolamento, il blocco della produzione.
È cambiato soprattutto il clima culturale e politico, non tanto nella sinistra tradizionale, ma “in giro”: università, movimenti, pubblicazioni, gruppi.

Fanno opinione, e fanno il loro lavoro di studiosi e attivisti, i tre moschettieri dell’economia francese. Sono Thomas Piketty ( quello che nel 2001, inascoltato, calcolò come l’1% dell’umanità controllasse quasi tutte le risorse mondiali), Emmanuel Saez ( che diede il via a Occupy Wall Street con lo slogan “noi siamo il 99%) e Gabriel Zucman, giovane economista espertissimo in tasse ed evasione, autore de “La ricchezza nascosta delle nazioni”, che fa il verso al classico del liberista Adam Smith.

Questo è ciò che si muove e preme. In Italia, il governo ha prodotto un decreto che certamente pone le basi di un rilancio. Conte ha parlato chiaro all’Unione Europea, chiedendo un credito senza condizioni in termini di interessi. Il Meccanismo europeo di stabilità la deve piantare di agire come una banca d’affari di profilo privatistico, come ha già fatto con diversi Paesi del Sud Europa, e non un paracadute comune per le grandi crisi. Anche i falchi del Nord devono volare più basso nella loro virtuosa intransigenza.

Ieri i democratici socialisti olandesi del partito D66, al governo con Mark Rutte, hanno attaccato con durezza il primo ministro, finora contrario a una reazione del tutto solidale alla crisi, senza chiedere interessi per il denaro dato come soccorso. Per D66, il premier Rutte non riconosce le ragioni fondanti dell’Europa e, forse, non si rende del tutto conto di cosa è accaduto.

Le sinistre, anche la nostra, devono raccogliere, interpretare e collocare in un orizzonte di azione politica “quello che si muove in giro”. Pietro Spataro, il 15 maggio scorso, osservava su strisciarossa che “ non bastano più mezzi accordi e fragili compromessi” e che il cambio di politica economica, dal mercato a un modello sociale, “dovrebbero essere la grande sfida della sinistra per i prossimi decenni”.

Una volta, durante una cena, chiesero a Margaret Thatcher quale fosse stato il suo più soddisfacente risultato. “Tony Blair e il New Labour – rispose – Siamo riusciti a far cambiare i nostri avversari”, fu la risposta. Pericolo sempre presente.