Il vaccino è un “bene comune”
non può essere riservato solo ai ricchi
Giorno dopo giorno, esattamente un anno fa, la pandemia si andava diffondendo nella reticenza della Cina a dichiarare la pericolosità del virus e ad ammetterne la trasmissione interumana. Il 30 gennaio 2020, ad un mese dal primo annuncio di un focolaio virale a Wuhan, l’Oms dichiarava l’emergenza sanitaria pubblica internazionale. Fu presto chiaro che il contagio causato dal virus SARS-CoV-2 non era uno scherzo, e che il mondo si era fatto trovare del tutto impreparato, malgrado i ripetuti annunci premonitori, persino a concepire l’idea di un evento virale su scala planetaria. Un anno fa si contavano 98 casi e nessun decesso. Oggi, sono più di 100 milioni le persone contagiate, oltre 2 milioni i morti nel mondo.
Una straordinaria corsa al vaccino
Occorre fare memoria dei numeri, che sono vite e persone, perché sono la filigrana attraverso cui proporre i primi bilanci, e le future prove di risposta. L’arrivo del vaccino anti Covid19 alla fine del 2020, un anno vissuto molto pericolosamente, rappresenta un risultato storico, una meraviglia della scienza. Mai si era vista prima una mobilitazione di questa portata contro lo stesso patogeno, vettore di una pandemia ormai non più solo sanitaria ma anche economica e sociale. Tre vaccini (Pfizer/Biontech, Moderna, AstraZeneca) sono stati scoperti e prodotti con una velocità inaudita – 10 mesi invece dei classici 10-12 anni – e una efficacia iniziale che lascia semplicemente allibiti, oltre il 90%. Altrettanti sono i vaccini cinesi, prossimi alla validazione internazionale: intanto Pechino si appresta a vaccinare 50 milioni di persone prima del capodanno cinese. La rivista The Lancet ha infine presentato con entusiasmo i dati clinici relativi al vaccino Sputnik V prodotto dalla Russia, che a metà gennaio ha avviato il dialogo con la agenzia europea EMA per l’approvazione. E poi non possiamo dimenticare il vaccino cubano, che ha un ruolo molto importante per i programmi di vaccinazione nel sud globale.
Occorre anche rilevare che il finanziamento pubblico è stato essenziale ad attivare questa rotta scientifica senza precedenti. Insieme alle nuove tecnologie, sono i fondi pubblici che hanno rivoluzionato gli studi clinici e permesso l’accelerazione dei processi scientifici. Un rapporto pubblicato l’11 gennaio dalla kENUP Foundation, una non profit europea che monitora la ricerca in ambito sanitario, rivela che in 11 mesi di ricerca farmaceutica su SARS-CoV-2 il settore pubblico ha investito 93 miliardi di dollari; di questo colossale impegno finanziario il 95% è stato destinato ai vaccini – 86,5 miliardi di dollari – e il 5% ai farmaci e alla diagnostica. La gran parte dei fondi pubblici è arrivata dai paesi industrializzati, con il 32% di investimenti dagli Usa (attraverso l’operazione Warp Speed), il 24% dall’Unione Europea (tramite la Commissione), il 13% dal Giappone e dalla Corea del Sud. L’iniziativa multilaterale Covax – sotto l’egida di Oms, Banca Mondiale, Commissione Europea e Fondazione Gates – ha avuto un ruolo decisivo nel convogliare il 93% dei fondi per accelerare ricerca, produzione e distribuzione dei vaccini tramite il meccanismo vincolante di impegno di acquisto preventivo (Advance Market Commitment, Amc), che ha reso subito disponibili i finanziamenti e spinto molto l’attività scientifica. Può forse sorprendere che la fetta finanziaria più consistente sia andata alle piccole e medie imprese e solo il 18% ai grandi produttori farmaceutici. La realtà è che le biotech hanno avuto un ruolo determinante nella ricerca contro Covid19. Piccole aziende finora sconosciute, come l’americana Moderna o le tedesche CureVac e BionNThec, specializzate nella tecnologia dell’Rna messaggero, sono le protagoniste assolute di questa storia di innovazione. Con Covid19 hanno riscritto la storia delle strategie vaccinali, e la loro stessa storia imprenditoriale. Lanciati sul mercato finanziario a metà agosto, i titoli di CureVac sono svettati del 249,4% in 24 ore, e del 400% in due giorni, per la felicità della Fondazione Bill & Melinda Gates, uno dei principali investitori della biotech
Tutte le insidie dei brevetti
Insomma, una pietra miliare, una trasformazione per molti aspetti entusiasmante psicologicamente, ma non priva di insidie. Seppur comprensibile, l’euforia sui vaccini di molta comunicazione ufficiale a fine 2020 rischia di oscurare le asperità dei programmi di vaccinazione. I vaccini non sono, come è stato detto a più voci, l’inizio della fine della pandemia. Casomai, con uno sguardo di lunga gittata sulle molteplici incognite del virus e delle sue varianti, l’avvento dei vaccini può segnare la fine dell’inizio della pandemia, la prima luce in fondo al tunnel. Il tunnel però è molto lungo, allertano gli studiosi più avvertiti, e insidioso. Sui vaccini si gioca una partita geopolitica che non ha precedenti, sotto diversi punti di vista. Sotto il profilo scientifico, nella futura interazione dei vaccini fra loro. Sotto il profilo della interazione fra governi e aziende, dopo le prime avvisaglie di risse tra paesi europei e case farmaceutiche. E infine sotto il profilo della cooperazione tra gli stati. Infatti, al netto dell’euforia, “la attuale capacità produttiva dei vaccini incontra solo una frazione del bisogno globale”, ha scritto il direttore dell’Oms, “e la scarsa collaborazione tra nazioni rimane il maggior ostacolo al piano di vaccinazione su scala mondiale, ciò che serve a fermare la pandemia”. I paesi ricchi – il 16% della popolazione globale – hanno già requisito il 60% delle dosi di vaccino disponibili con l’intento di immunizzare il 70% della loro popolazione adulta entro la metà dell’anno. Gli Usa hanno siglato accordi di acquisto per il 230% della popolazione americana, e potrebbero a breve controllare 1,8 miliardi di dosi: un quarto di tutta la produzione mondiale. Il Canada ha accaparrato dosi in numero utile a vaccinare la popolazione sei volte.
Intanto, Covax fa una gran fatica ad acquistare dosi sufficienti per vaccinare il solo 20% della popolazione nei paesi a basso reddito entro la fine dell’anno, come da programma. Covax ha annunciato in una recente conferenza stampa di voler consegnare 1,8 miliardi di dosi ai 92 paesi inseriti nel programma di supporto vaccinale: il 35-40% delle dosi promesse dovrebbero arrivare alla fine di marzo, il resto alla fine di giugno. Ma alcune proiezioni attendibili dicono che in alcuni paesi africani i piani di immunizzazione potrebbero iniziare solo alla fine del 2024, o addirittura all’inizio del 2025. E’ questo scenario che ha spinto diversi governi a negoziare accordi diretti con le aziende – l’Oms ha registrato 44 accordi bilaterali in corso, 12 dei quali stipulati nel solo mese di gennaio 2021. Questo è il caso di Sudafrica e Uganda, pesantemente colpiti dagli effetti sociali ed economici di Covid19, i quali vogliono accelerare i piani vaccinali. A caro prezzo. Si trovano infatti a pagare il vaccino di AstraZeneca – prodotto dal Serum Institute indiano su licenza – ad un costo ben superiore: 5,25 dollari a dose in Sudafrica (la stessa quotazione del Brasile) e addirittura 7 dollari a dose in Uganda, rispetto ai 3,5 dollari a dose per l’Europa. Una paradossale ma pavloviana ricaduta del libero mercato.
Sospendere i diritti di proprietà intellettuale
Un altro paradosso è che gli assetti del commercio internazionale in materia di brevetti – una delle manifestazioni più simboliche della patogenesi alimentata dalla globalizzazione – restano intatti nonostante gli spaventosi contraccolpi della pandemia. Il 2 ottobre India e Sudafrica hanno avanzato all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) una proposta di temporanea sospensione di tutti i diritti di proprietà intellettuale in ambito farmaceutico durante la pandemia, non solo per i vaccini ma anche per i prodotti medicali essenziali (IP Waiver). E’ una presa d’atto che l’Accordo Trips del 1995, che incentiva l’innovazione industriale con la attribuzione di diritti esclusivi della durata di venti anni non funziona con l’industria del farmaco, in un tempo di pandemia. Il sistema di innovazione guidato dal “capitalismo del monopolio intellettuale”, secondo la definizione della studiosa australiana Susan Sell, fa acqua da tutte le parti in realtà da quando è stato introdotto, e infatti già nei primi mesi del contagio paesi come Germania, Canada, Cile e Israele hanno modificato le leggi nazionali sui brevetti per concedere ai governi un margine di manovra più ampio rispetto alla possibilità di deroga ai diritti di proprietà industriali.
La possibilità di sospensione chiesta da India e Sudafrica è prevista dal Trattato di Marrakesh, costitutivo dell’Omc. Il Sudafrica, in una nota tecnica inviata a novembre al Wto, ha elencato i principali vincoli brevettuali che ostacolano l’accesso ai dati su farmaci e strumenti medicali che potrebbero accelerare il contrasto a SARS-CoV-2. La proposta politica tiene banco ed è tuttora in discussione, soprattutto in Europa, dopo le schermaglie con l’industria. Mentre scriviamo è in corso il terzo Consiglio dei TRIPs a Ginevra volto a discutere su questa misura, che ha ottenuto sì il sostegno di oltre 100 paesi, ma è osteggiata ancora da Usa, Commissione Europea, Giappone, Australia, Norvegia. La decisione finale sarà assunta il 1-2 marzo. Intanto, si sono pronunciati a favore della deroga 12 rapporteur speciali dell’Onu e oltre 400 organizzazioni della società civile. Al tema del brevetti come barriera al “vaccino bene comune” ha fatto riferimento anche Papa Francesco nella omelia del Natale.
Il vaccino “bene comune” è, ora più che mai, la sfida al Covid19. Il terreno della sua pedagogia per il 2021. La luce dell’immunità di gregge è ancora molto distante, nel lungo tunnel del virus. E non andremo lontano se non sapremo affrancarci anche dal virus della disuguaglianza.
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