Il sovranismo, un pericolo
mortale anche
per l’ambiente
Europa matrigna? Nemmeno per sogno. Se oggi nel nostro lessico comune e nella nostra legislazione sono entrati termini come decarbonizzazione, adattamento, resilienza lo dobbiamo solo alla capacità dell’Unione Europea di proporre piani di azione ambientali e strategie energetiche in grado, se attuate, di affrontare nelle condizioni migliori le crisi climatiche che si sono abbattute violentemente sugli Stati membri.
L’Europa politica, almeno per quel che riguarda l’ambiente e l’energia, ha sempre funzionato ed è grazie alle proposte e alle regole, a volte rischiose per gli equilibri nazionali di questo o di quel Paese messe in campo dal sistema comunitario che oggi anche l’Italia, recependo faticosamente le direttive dell’Unione, ha iniziato il lungo cammino verso l’equilibrio sostenibile di una società squilibrata e onnivora. È il senso di comunità, che d’imperio l’Europa ci ha obbligati a perseguire che ci ha protetti.
Fino ad oggi. Non è più così. E non per il lassismo con cui i nostri governanti affrontano la riparazione di territori abusati, ma perché è il concetto stesso di “sovranismo” nella sua accezione di autodeterminazione che non consente più una visione di comunità globale ma propende per un liberismo individualista e un approccio particolaristico su temi e regole che necessiterebbero invece, di risposte generali. In un nuovo mondo in cui da soli non ci si può salvare, i nostri governanti stanno cercando di convincere i cittadini della possibilità di autosufficienza non solo economica ma anche ambientale e sociale. E dunque ecco che ci viene dipinta un’Europa matrigna che lede l’autodeterminazione del popolo sovrano.
È l’anticamera della paralisi. Illuminante, per delineare le conseguenze che questo atteggiamento porta con sé è stato il reportage di Diego Bianchi, mandato in onda nella trasmissione Propaganda Live, dalle montagne del bellunese, distrutte dall’ultima tempesta perfetta. Lassù cittadini, amministratori, volontari, completamente isolati, si sono rimboccati le maniche prima dell’arrivo della stagione turistica invernale, per riparare il territorio sconquassato, lontanissimi dal centro e da una politica che, nello stesso momento, disquisiva sulla crisi del rapporto d’amore della conduttrice con il monarca. Un depistaggio efficace per evitare risposte. Un gruzzoletto per l’emergenza e poi…arrangiatevi. Ognuno fa da sé.
Il sovranismo presupporrebbe (per chi ci crede) l’aver raggiunto dei punti fermi di governo del Paese, di stabilità soprattutto politica ed economica tali che esso sia in grado di autodeterminarsi nel confronto globale. Ma l’anatra non è nemmeno zoppa, è paralizzata. Quindi quale percorso autogestito può mettere in campo la politica di un Paese sconquassato, indebitato, spaventato, in attesa di sostituire il cappello protettivo dell’Europa con qualche altro basco sovranista? Basta andarsi a spulciare le innumerevoli procedure d’infrazione che l’Unione europea ha avviato o solo minacciato nei nostri confronti, per rendersi conto di come su temi prioritari come la questione ambientale e quella energetica arranchiamo, tamponiamo, mettiamo pezze, sempre sotto ricatto di qualche “manina” che preme per sanare.
È stata l’Unione Europea che per prima ha lanciato l’allarme sulle emissioni di gas serra, causa ed effetto dei cambiamenti climatici, ed ha avviato l’adozione di programmi comuni per fronteggiare gli eventi sempre più estremi e rafforzare le iniziative degli Stati membri per la riduzione dei combustibili fossili, l’adattamento al surriscaldamento globale e lo sviluppo di progetti di sostenibilità. Ed è oggi la comunità europea che ha introdotto nel dibattito il concetto di resilienza, ovvero l’altra faccia della sostenibilità, considerando che l’obiettivo di quest’ultima, è reso molto difficile, se non impossibile, dagli scenari attuali in cui molti cambiamenti e situazioni di squilibrio sono ormai una realtà. Quello sviluppo ipotizzato, forse sognato, che avrebbe potuto soddisfare le necessità di oggi senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie, non è più perseguibile a causa della rapidità con cui il riscaldamento globale sta introducendo nelle nostre vite fenomeni estremi destinati a tradursi in ingenti perdite economiche, problemi di sanità pubblica e perdite di vite umane: ondate di calore, incendi boschivi, siccità, precipitazioni abbondanti, inondazioni e erosioni.
Secondo delle stime dell’UNFCCC, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite, il costo annuo del mancato adattamento ai cambiamenti climatici ammonterebbe almeno a 100 miliardi di euro nel 2020, per arrivare a 250 miliardi nel 2050. Per questo entra in campo la resilienza, definita dagli esperti del Resilience Center di Stoccolma come “la capacità di un sistema – sia esso un individuo, una foresta, una città o un’economia – di affrontare il cambiamento e continuare nel proprio sviluppo”. Utilizzare gli shock, come per esempio i cambiamenti climatici, senza esserne travolti. Ciò non vuol dire abbandonare l’idea di raggiungere uno sviluppo sostenibile che possa evitare le conseguenze negative dei cambiamenti sulla natura e sulle persone, ma aggiungere nuove opportunità per aiutare le popolazioni, le organizzazioni e i sistemi vulnerabili a resistere e persino a prosperare in seguito a imprevedibili eventi distruttivi.
Aumentare la resilienza vuol dire individuare strategie di adattamento che tengano ben conto degli impatti ambientali, economici e sociali dei cambiamenti climatici. E l’area del Mediterraneo rappresenta una delle zone più vulnerabili agli effetti del surriscaldamento. Ecco perché oggi un organismo sovranazionale forte, una comunità d’intenti e di legge ben rappresentativa, che obblighi alle buone pratiche e agli interventi sostenibili e resilienti è necessaria e ineludibile. Non è il concetto di Europa che non funziona, ma gli uomini che via via si sono avvicendati ai vertici del Parlamento e che man mano sono apparsi sempre più inadeguati.
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