Il razzismo allenato dal colonialismo

Il mondo coloniale è un mondo manicheo.
Non basta al colono limitare fisicamente, vale a dire con l’aiuto della sua polizia e della sua gendarmeria, lo spazio del colonizzato. Come ad illustrare il carattere totalitario dello sfruttamento coloniale, il colono fa del colonizzato una specie di quintessenza del male. La società colonizzata non è solo descritta come una società priva di valori. Non basta al colono affermare che i valori hanno abbandonato, o meglio non hanno mai abitato, il mondo colonizzato. L’indigeno lo si dichiara impermeabile all’etica, assenza di valori, ma anche negazione dei valori. Egli è, osiamo confessarlo, il nemico dei valori. In questo senso, è il male assoluto. Elemento corrosivo, che distrugge tutto ciò che l’avvicina, elemento deformante, che travisa tutto quel che si riferisce all’estetica o alla morale, depositario di forze malefiche, strumento incosciente e irrecuperabile di forze cieche. E l’on. Meyer poteva dire seriamente all’Assemblea nazionale francese che non bisognava prostituire la Repubblica facendovi penetrare il popolo algerino.

I valori, difatti, sono irreversibilmente avvelenati e inquinati appena li si mette a contatto col popolo colonizzato. Gli usi del colonizzato, le sue tradizioni, i suoi miti, sono il segno stesso di tale indigenza, di tale depravazione costituzionale. Perciò occorre mettere sullo stesso piano il DDT che distrugge i parassiti, vettori di malattia, e la religione cristiana che combatte in germe le eresie, gli istinti, il male. Il regresso della febbre gialla e il progresso dell’evangelizzazione fanno parte dello stesso bilancio. Ma i comunicati trionfali delle stesse missioni informano in realtà sull’entità dei fermenti di alienazione introdotti in seno al popolo colonizzato. La Chiesa in colonia è una chiesa di bianchi, una Chiesa di stranieri. Non chiama l’uomo colonizzato alla via del Signore, ma alla via del bianco, alla via del padrone, alla via dell’oppressore. E com’è noto, in questa faccenda ci sono molti chiamati e pochi eletti.

A volte tale manicheismo arriva fino in fondo e disumanizza il colonizzato. A rigor di termini, lo animalizza. E, difatti, il linguaggio del colono, quando si parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico. Si fa allusione ai movimenti serpeggianti dell’indocinese, agli effluvi della città indigena, alle orde, al puzzo, al pullulare, al brulicare, ai gesticolamenti. Il colono, quando vuole descrivere bene e trovare la parola giusta, si riferisce costantemente al bestiario. L’europeo incorre di rado nei termini “immaginosi”. Ma il colonizzato, che coglie il progetto del colono, la causa precisa che gli viene intentata, sa subito a che cosa pensa. Quella demografia galoppante, quelle masse isteriche, quei visi da cui ogni umanità si è dileguata, quei corpi obesi che non assomigliano più a niente, quella corte senza capo né coda, quei bambini che sembrano non appartenere a nessuno, quella pigrizia sciorinata sotto il sole, quel ritmo vegetale, tutto ciò fa parte del lessico coloniale.

Il generale De Gaulle parla delle “moltitudini gialle” e Mauriac delle masse nere, brune e gialle che presto traboccheranno.

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Mondo a scomparti, manicheo, immobile, mondo di statue: la statua del generale che ha operato la conquista, la statua dell’ingegnere che ha costruito il ponte. Mondo sicuro di sé, che schiaccia colle sue pietre le schiene sconciate dalla frusta. Ecco il mondo coloniale. L’indigeno è un essere chiuso in un recinto, l’apartheid non è che una modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale. La prima cosa che l’indigeno impara, è a stare al suo posto, a non oltrepassare i limiti. Perciò i sogni dell’indigeno sono sogni muscolari, sogni di azione, sogni aggressivi. Sono di saltare, di nuotare, di correre, di arrampicarsi. Sogni di scoppiare dalle risa, di scavalcare il fiume con un salto, di essere inseguito da mute di macchine che non lo pigliano mai. Durante la colonizzazione, il colonizzato non cessa di liberarsi tra le nove della sera e le sei del mattino.

Di fronte all’assetto coloniale il colonizzato si trova in uno stato di tensione continua. Il mondo del colono è un mondo ostile, che respinge, ma al tempo stesso è un mondo che fa gola. Il colonizzato sogna sempre di impiantarsi al posto del colono. Non già di diventare un colono, ma di sostituirsi al colono. Quel mondo ostile, pesante, aggressivo, perché respinge con tutte le sue forze la massa colonizzata, rappresenta non già l’inferno da cui ci si vorrebbe allontanare il più presto possibile, ma un paradiso a portata di mano che proteggono enormi mastini.

(Frantz Fanon, I dannati della terra, 1961)