Il problema non è quanto parla Schlein ma se il Pd riesce a decidere

La nuova segretaria del Pd sta suscitando molte attese, le sue iniziative sono sempre affollate, come non si vedeva da tempo, ma sta anche sollevando varie obiezioni: alcune troppo strumentali per essere prese in seria considerazione; altre, più sincere, che meritano di essere discusse.

Da ultimo, Stefano Cappellini, su Repubblica, ha parlato di “strategia dell’assenza”, riferendosi alla prudenza con cui Elly Schlein sta centellinando le sue “uscite” pubbliche. In un’epoca di bulimia mediatica, appare spiazzante la parsimonia con cui la segretaria del Pd esprime pubblicamente la sua opinione su tutti i temi dell’agenda politica.

Elly Schlein

E’ frutto di una strategia consapevole o nasce da qualche altro fattore? In effetti, in questo primo mese successivo alle primarie e alla nomina della nuova segreteria, Elly Schlein sta insistendo sui temi su cui si sente “forte”, su cui ha impostato la sua campagna per le primarie, con cui si è caratterizzata nei primi interventi in Parlamento o nelle piazze.

La “strategia dell’assenza”

Su altri temi, indubbiamente, è vero che Schlein sta evitando dichiarazioni troppo impegnative. Ebbene, ritengo che questa prudenza sia espressione di saggezza politica, non di imbarazzo. E’ singolare che, da più parti (anche da parte di esponenti del Pd che hanno avuto un ruolo non di secondo piano negli ultimi dieci anni, e che non poco hanno contribuito alla caduta rovinosa di questo partito: cosa di cui alcuni sembrano essersi dimenticati), si alzi ora un appello assillante e spesso petulante: “ma Elly, cosa dice?”.

Si ignora, evidentemente, che il Pd – su tutto l’arco delle possibili proposte politiche e programmatiche – ha un drammatico bisogno di una radicale opera di riconversione culturale e politica. Occorre ripensare i fondamenti stessi di una “linea” che è apparsa non solo inadeguata, incapace di parlare a vasti settori della società italiana, ma anche fondamentalmente “sbagliata”, per gli obiettivi che sono state individuati e per gli effetti che ne sono derivati. Si pensi solo alle politiche del lavoro, al Jobs Act e poi, soprattutto, alla paralisi con cui, successivamente, il Pd non è stato nemmeno in grado di correggere il tiro. E ora si pretende che “Elly” dica la sua, ora e subito, su tutto l’universo mondo?

La visione deformata di una leadership

E poi: si teme “la donna sola al comando”, ma si chiede ora alla segretaria di “dare la linea” su tutte le questioni, e di farlo magari con un tweet e in un talkshow? La deformazione di una visione personalizzata della leadership si misura anche in queste malsane aspettative, che, occorre dire, sono coltivate anche a sinistra, da tutti coloro che non vedono l’ora di trovare una conferma al proprio scetticismo e disincanto.

Per alcuni, non si tratta più nemmeno del classico bicchiere “mezzo pieno” o “mezzo vuoto”: il bicchiere è a secco, del tutto, e si è deciso a priori che la Schlein non potrà riempirlo…

Detto ciò, alcuni problemi esistono: in che modo può essere avviato questo complesso lavoro di ricostruzione dell’identità politica e culturale del Partito Democratico? Come gestire e come intendere il “pluralismo” interno?

Un radicale rinnovamento nei metodi di discussione interna

Vedremo se la prossima riunione della Direzione del partito comincerà a dare qualche indicazione. La nostra opinione è che bisogna praticare un radicale rinnovamento nei metodi della discussione interna, e nei modi con cui si connette il dibattito alla definizione delle posizioni del partito.

pd-manifesto-strappatoAd esempio, si potrebbe mettere in cantiere una Conferenza programmatica annuale (istituto pur previsto dallo Statuto e mai sperimentato), e intanto chiedere a tutti i responsabili dei settori di lavoro incaricati nella nuova segreteria di predisporre dei documenti, (un dossier o un “libro bianco”, come lo si vuol chiamare), aperti alla discussione interna ed esterna al partito, in cui siano indicati senza troppe cautele diplomatiche anche i punti controversi, quelli su cui nel partito ci sono posizioni diverse, o quelli su cui è necessario un supplemento di istruttoria. Promuovendo una fase di discussione serrata, con tempi e modi ben definiti, al termine della quale spetta alla segretaria tirare le fila.

Ed è questo, peraltro, l’unico modo con cui si può pienamente valorizzare il pluralismo interno: avere le sedi e gli strumenti per una discussione politica, in cui si possano far valere i contributi di tutte le idee presenti nel partito. Si può sgombrare così il campo da una questione veramente mal posta: la ricchezza del pluralismo non si misura con il bilancino dei posti assegnati in segreteria.

Il Partito Democratico, fino ad oggi, è stato un partito persino disabituato alla discussione: se analizziamo la vicenda del Pd con gli strumenti teorici che ci mette a disposizione un ramo della scienza politica, la policy analysis, che studia i processi di formazione delle scelte programmatiche nei vari campi delle politiche, forse potremmo cogliere l’utilità di due modelli teorici ben presenti nella letteratura: il modello “incrementale” (“aggiustare” progressivamente la linea sulla base delle contingenze, ma senza lo sforzo di una visione complessiva) e, soprattutto, quello – un po’ paradossale – del cosiddetto del “garbage can” (il bidone della spazzatura): ovvero, prima si trovano delle “soluzioni”, poi si cercano “i problemi”, e si affastella il tutto, sperando di trovare una buona combinazione tra “problemi” e “soluzioni”.

La voce asfittica di chi ha imposto la linea fino a ieri

Al di là di tutto, nel Pd è stata spesso in azione una policy èlite (il network di attori che ha “voce in capitolo” sulle decisioni da prendere) piuttosto asfittica e spesso poco trasparente: ovvero chi sono stati i soggetti che hanno determinato la posizione del partito su una data questione? Chi ha deciso, e come? Ad esempio, sempre per restare alle politiche del lavoro, chi furono i consulenti, giurislavoristi o altro, che ispirarono quelle scelte?

E, a proposito della riforma costituzionale di Renzi, quali settori della cultura costituzionalistica furono gli interlocutori privilegiati, e perché non altri? Di queste, e di tante altre cose, nel partito si era mai parlato e discusso? Da qui poi, l’impressione che ha dominato a lungo, in chi guardava le cose del PD: un misto di afasia (incapacità di dire qualcosa di ben definito) e di cacofonia (tutti dicono la loro, pubblicamente, ma poi non si sa cosa veramente dice il partito, in quanto tale).

La nuova segreteria, se si vuole salvare il PD, deve mettere fine a questo andazzo: e avviare forme di discussione chiare, aperte, ordinate e strutturate, che si concludano con le decisioni degli organismi, affidando alla segretaria il compito di sintesi e di proposta. Ci si riuscirà? E questa la vera scommessa su cui misurare la nuova leadership.