Il potere volle morta la donna
che aveva conquistato l’Europa

All’alba del 15 ottobre del 1917 una donna fu portata nel cortile delle esecuzioni nel castello di Vincennes, alla periferia di Parigi, davanti a un plotone già schierato. Indossava un vestito bianco e un cappello a larghe tese. Aveva 41 anni, si chiamava Margarethe Geertruida Zelle, ma il mondo la conosceva con un altro nome: Mata Hari, Occhio dell’Alba in lingua malese, un nome che per quasi vent’anni aveva acceso le fantasie di milioni di uomini e l’ammirazione, forse l’invidia, di milioni di donne.

Margarethe era stata arrestata otto mesi prima in un hotel di lusso a Parigi, con l’accusa di essere una spia dei tedeschi. La notizia era scoppiata come una bomba e aveva scacciato dalle prime pagine le cronache della guerra, che in quelle settimane stava prendendo una brutta piega per le forze dell’Intesa. Da quel 13 febbraio i giornali, gli stessi che avevano osannato per anni l’arte di Mata Hari, che avevano raccontato i suoi successi in tutta Europa, i suoi amori, la sua eleganza, le sue stravaganze, si erano lanciati in una campagna furibonda contro la “traditrice”, la “Salomè” che “aveva venduto ai tedeschi le teste dei soldati francesi”. La campagna era ispirata dall’alto: l’opinione pubblica era infuriata per i rovesci dei soldati francesi e si cominciava a pensare che il massacro sarebbe durato per anni. Al fronte si manifestavano episodi di disfattismo e di insubordinazione, che per ordine dello Stato Maggiore venivano puniti con la violenza selvaggia delle decimazioni. I dubbi si stavano diffondendo nel paese, il fronte interno vacillava. Bisognava fornire alla massa un capro espiatorio, qualcuno su cui gettare l’infamia del tradimento: la guerra va male non perché i nostri soldati e i nostri generali non siano coraggiosi e non si battano bene, ma perché qualcuno li ha traditi. E un capro espiatorio i vertici militari e il governo lo trovano: quella straniera bella e spregiudicata, la grande seduttrice che condivide letto e lussi con i potenti, che è di casa nelle capitali straniere, che si esibisce senza pudori. La femmina per cui gli uomini farebbero follìe ma che per il senso comune dei benpensanti è l’incarnazione della sfrontatezza, della depravazione, del peccato.

E le prove? Si trovano anche quelle. Mata Hari era a Berlino quando l’attentato di Sarajevo ha precipitato l’Europa in guerra. È stata l’amante di un alto ufficiale prussiano, Hans Kiepert, che è diventato per lei una specie di manager teatrale; ha stretto una relazione con il console di Berlino all’Aja Alfred von Kremer; a Madrid ha frequentato l’attaché militare tedesco; a Londra è stata scambiata per una spia del Reich. Poi è stata rilasciata con tante scuse, ma… C’è quanto basta per renderla sospetta. In realtà i fatti che il capo del controspionaggio francese Georges Ladoux ha in mano al momento dell’arresto sono deboli e molto confusi. C’è una sola cosa certa: i contatti che la donna ha avuto con i servizi di Parigi, cui aveva offerto di collaborare per una somma di denaro spropositata e che, senza pagarla, l’hanno utilizzata. Ma non c’è alcuna evidenza che lei abbia fatto il doppio gioco. Solo sospetti, deduzioni, mormorii, labili indizi: un assegno di ventimila franchi ricevuto da von Kremer, dell’inchiostro simpatico che lei dice di aver buttato in mare, un messaggio a Berlino in cui lo stesso von Kremer la indicava come agente, ma inviato in un momento in cui i tedeschi sapevano che i francesi avevano decrittato i loro codici, così da far pensare, piuttosto, a una vendetta contro di lei per aver aiutato i francesi. Inoltre l’accusa di “tradimento”, che i giornali sparano in prima pagina, è quanto meno impropria: Margarethe Zelle è olandese e i Paesi Bassi in questa guerra sono neutrali.

Il processo si celebra a luglio davanti alla suprema corte militare. Eccetto Ladoux, tutti gli ufficiali chiamati a deporre escludono che la donna abbia loro carpito dei segreti. Anche il soggiorno a Contrexeville, presso Vittel, dove Mata Hari ha passato qualche settimana e che la procura militare giudica la prova della sua attività di spia, cade come prova. Von Kremer le aveva effettivamente proposto di andare laggiù, ma lei aveva subito informato della proposta i servizi francesi ed era stato Ladoux in persona a darle il permesso di recarsi a Vittel, dove prestava servizio il suo fidanzato dell’epoca, il maggiore russo Vadim Masslov. Questi, poco più che un ragazzo, è l’unico fra i suoi tanti uomini che Mata Hari abbia amato davvero, ma per non essere coinvolto come complice la ripagherà con una squallida vigliaccheria: non eravamo fidanzati – dirà agli inquirenti – fu solo l’avventura di qualche giorno.

Se si fosse in tempi normali un processo simile si concluderebbe con un’assoluzione per insufficienza di prove. Ma non sono tempi normali: le cose al fronte vanno sempre peggio e vanno peggio anche per l’imputata, l’odiosa spiona dei boches, la Salomè che ha venduto i nostri ragazzi. Il 26 luglio Margarethe ascolta incredula il giudice pronunciare la condanna a morte. In poche settimane cadono tutte le speranze di revisione del processo e vengono respinte due domande di grazia. All’alba del 15 ottobre due soldati e una suora entrano nella cella, aspettano che l’imputata finisca le tre lettere che la legge le consente di scrivere prima dell’esecuzione – alla figlia, all’ambasciatore olandese a Parigi e a Masslov, del cui tradimento forse non sa – e poi la portano via.

1/segue