Il potere delle immagini, le trappole di Fontcuberta. Nell’era della postfotografia
Joan Fontcuberta è uno strano personaggio. Fotografo, artista, e molte altre cose. Così lo descrive Michele Smargiassi, storico della fotografia e giornalista, presentando il suo libro “La furia delle immagini. Note sulla postfotografia” (Einaudi): “Fontcuberta prende le immagini sul serio. Scrittore, critico, artista, storico, curatore. Sorridente filosofo della fotografia, sperimentatore di vaccini omeopatici della credulità e di trappole per mettere alla prova i vaccini”.
Fu lui infatti a fabbricare l’operazione Soyuz 2, una mostra-installazione su una missione cancellata perché fallita, di cui ha ricostruito la memoria posticcia, tant’è che è suo il volto dentro il casco d’epoca, originale quest’ultimo. Ma la cancellazione delle testimonianze della missione era una fake news meno grave di quella mostra che le riesumava verosimili?
La fotografia, dice Smargiassi, “è un bacio di Giuda, un gesto d’amore che ci tradisce. Chi comanda nel mondo dell’immagine? Chi stabilisce il vero e il falso? Soprattutto ora che ne siamo invasi, non siamo capaci di sostenere la sfida della gestione politica dell’immagine. Eppure dobbiamo gestirle noi, le immagini, non lasciare che ne siamo gestiti. Il rischio è che l’immagine soppianti la realtà”.
Questo è il tema, il bandolo che Fontcuberta coglie con destrezza. “Sono un fotografo letterario, non letterale – dice, ospite al Festivaletteratira di Mantova – le foto sono sempre trappole. Più che creatore di immagini sono un direttore d’orchestra. Chiamo postfotografia questi tempi in cui tutti fotografano, tutti sono produttori e consumatori di immagini”.
La postfotografia è caratterizzata dalla massificazione dell’immagine, dalla sua dematerializzazione, dall’accessibilità universale. Seguiamo il ragionamento di Fontcuberta, che segnala alcune tappe in cui cambia l’uso convenzionale delle foto. Prima tappa: sparita la questione tecnica, la bravura nello scattare foto, gli obiettivi, gli esposimetri, oggi le foto si fanno da sé. Un tempo l’immagine era scrittura, oggi è linguaggio.
Le foto sono un’estensione della nostra vita a costo zero. Nel 2005 ci fu l’elezione di un papa, nel 2013 un’altra. Se i fedeli in piazza san Pietro erano forse emozionati ma composti, nel 2013 una ridda di braccia si sono levate a salutare il nuovo papa brandendo il telefono, pronte a scattare. “Non si fotografa più per documentare un fatto, ma per iscriversi nel fatto, per dire: io c’ero – sostiene – nell’Intifada palestinese un tempo si gettavano sassi, oggi foto. A Barcellona durante l’intervento repressivo della polizia la gente ha usato le foto contro le violenze”.
La dematerializzazione è una sorta di falso: durante le missioni americane all’estero si fotografava il papà soldato e si ricostruivano cene di natale e foto di famiglia con quella foto, come se lui fosse lì. Un falso quasi vero, non c’era con il corpo ma con l’immagine e con il sentimento. Il fatto è che poi la foto ha preso una sua strada autonoma. Si fotografa per le ragioni più bizzarre, come testimoniano le migliaia di immagini di un pene vicino a un flacone di bagnoschiuma, sciampo, schiuma da barba, come a misurarne le dimensioni: migliaia. Ed è il numero la seconda questione. L’alluvione di immagini, 350 milioni solo su Faceboock, e se si sommano Flick, Istagram, Snapchat e gli altri non basterebbero a una persona normale 50 anni di vita per vederle tutte, pur non facendo altro. E’ questo il paradosso: facciamo più foto di quelle che possiamo o vogliamo vedere.
Ne deriva anche un declino del sublime: il fotografo avventizio si dedicava ai trsmonti e ai fiori, oggi il cattivo gusto è tracimato al punto da ritrovare una raffica di foto di magnifici panorami ma fotografati a test in giù con la macchina tra le gambe, e una bella porzione di scroto che li sovrasta, come un disco volante. Non uno, tantissimi.
Servirebbe un’ecologia dell’immagine, un’autocensura del volgare. Bisognerebbe anche gestirne criticamente l’abbondanza. Anche se lo stesso Fontcuberta ha creato a Barcellona un murales davanti alla cattedrale di Barcellona proprio grazie all’abbondanza, il famoso “Bacio”.
Ha chiesto che gli venisse inviata una foto che rappresentasse la libertà. La libertà non è una sola: ne ha ricevute quindicimila. Ne ha scelto una e, per farne una gigantografia, con altre ottomila ha costruito i pixel del murale, una mattonella per ogni foto. Si vedono solo avvicinandosi molto, ma quel bacio è formato da una miriade di libertà diverse e corali.
Secondo paradosso: è possibile che l’enorme libertà di scattare foto, l’intelligenza artificiale e la facilità della tecnica restringano lo spazio di libertà. Come potremo, in questo enorme magma di immagini, identificare quella che cerchiamo? E’ una nuova forma censura qjuesta, che non proibisce, ma che satura e nasconde a forza di banalità.
Individuare il problema è già un passo verso la soluzione, si dice. E il futuro delle immagini ci riserva molte sorprese. Del resto, provoca Smargiassi, non è stato lo stesso Fontcuberta all’epoca, quando gli chiesero che ne pensava della possibilità di inserire una macchina fotografica nei telefonini, a dire deciso che sarebbe stata una sciocchezza? Un errore patente e clamoroso, ma chi non l’avrebbe fatto, allora? Ma no, scherza lui, non era quella la domanda: mi avevano chiesto che ne pensavo dell’idea di inserire un telefono nella macchina fotografica. E chissà che, prima o poi, qualcuno non ci pensi davvero.
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