Il Pd non deve morire e risorgere, ma ascoltare di più giovani e donne
Davvero il Partito Democratico deve essere incenerito per risorgere, forse, come l’Araba Fenice? Il destino del Pd dovrebbe interessare tutti, sia quelli che lo votano, sia quelli che non lo votano più, sia quelli che non l’hanno votato né lo voteranno mai. In fondo è l’unico a mantenere la “forma-partito”, nei termini previsti dalla Costituzione (art. 49): “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (…)”. Forse, proprio per questo, è una sorta di reperto archeologico, eppure, nel bene e nel male, conserva elementi essenziali del metodo democratico.
Il Pd: un partito dall’identità smarrita, ma pur sempre un partito

Esistono, qua e là, le sezioni, forse inutili ed obsolete, dove una volta si formava la politica sul territorio, e non – come adesso – dentro le “nuvole” di internet e dei social. I segretari, cambiati con un ritmo forsennato, sono comunque eletti dalla base, dopo un dibattito articolato e spesso sfiancante. Adesso, dopo l’ultima sconfitta – che ha prodotto una sorta di torpore mediatico – è iniziata la via crucis che dovrebbe portare alla resurrezione, con l’elezione del nuovo segretario e la definizione di una identità smarrita, insieme a milioni di voti (12 milioni nel 2008, poco più di 5 milioni il 25 settembre 2022).
I candidati sono quattro e più che dignitosi, forse anche interessanti, sicuramente delle brave persone. Stefano Bonaccini, con la sua solidità di buon amministratore e la bonomia emiliana; Elly Schlein, innovativa per definizione; Paola De Micheli, autocandidata non si sa perché; Gianni Cuperlo, candidato in extremis, raffinato intellettuale affezionato alle cause perse. Niente male, ma non si è ancora capito bene a quale idea di partito si candidino. Forse, come sostiene Bonaccini, basterebbe spiegare, davvero in trenta secondi, “che un povero deve essere curato ed istruito come un ricco”, come vuole la nostra Costituzione.
La morsa di alleati scomodi e governo
Intanto il Pd è assediato dai suoi potenziali ed inconciliabili alleati. Da una parte il M5S, guidato dall’ineffabile Giuseppe Conte, che si è scoperto di sinistra. Dall’altra, il duo Calenda-Renzi, entrambi ex Pd, veloci, intelligenti e spregiudicati, che vogliono dettare dall’esterno la “linea” al Pd. Nel frattempo sono stati scritti libri di consigli non richiesti su cosa dovrà essere. In realtà basterebbe rileggere i principi dai quali è nato, dall’incontro di una cultura socialdemocratica (della quale faceva parte integrante anche il Pci) e laica con il cattolicesimo democratico e sociale. Ma il vero problema è che il Pd, ormai, è percepito come una “casta” dedita al potere. Questo ha prodotto una diffusa antipatia e ostilità nei suoi confronti, mentre tutti gli altri possono essere “casta” e vivere felici, contenti e votati.
Adesso i quattro candidati parlano a platee che sembrano inaspettatamente ben più ampie di quanto sembrava probabile rispetto alla narrazione dominante; qualcuno (Bonaccini) deve anche salire su una sedia, come ai vecchi tempi, per farsi vedere ed ascoltare. Ma, forse, sarebbe opportuno che i candidati aprissero occhi e orecchie per ascoltare e rendere protagonista il mondo giovanile, confuso e disorientato, le donne, tanto citate quanto dimenticate, il mondo del lavoro, sempre più frammentato ed impotente.
Intanto il governo di Giorgia Meloni inciampa su tutti gli argomenti che propone, dal Pos al Mes alle accise sulla benzina, ai limiti alle intercettazioni, eppure mantiene il consenso tra gli italiani, trascinato dalla verve comunicativa della presidente del Consiglio, che si fa gli auguri e i complimenti da sola, e piace proprio per questo.
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