Il Pci e la dimensione europea:
un cammino che parte da lontano
Questa riflessione muove da due punti estremi del divenire della realtà mondiale ed europea. Da un lato l’internazionalismo di tradizione comunista che subì serie battute d’arresto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, irrigidito dalle maglie strette della logica dei blocchi. Da allora la visione universalistica fu interpretata da altre tradizioni politiche e trovò una dimensione giuridica condivisa nella nascita delle Nazioni Unite e delle istituzioni del multilateralismo (Bretton Woods).
Dall’altro dalla constatazione che la finanziarizzazione dell’economia, sostenuta dalla rivoluzione tecnologica, ha trasformato il multilateralismo, con una accelerazione sorprendente, nella cosiddetta globalizzazione. I nuovi nazionalismi del XXI secolo, sia quelli illiberali che quelli a sfondo populista, hanno trovato, e siamo ai giorni nostri, una delle ragioni principali del loro apparire proprio nelle conseguenze di una globalizzazione fuori controllo.
Questa esemplificazione, però, da sola non ci permetterebbe di analizzare quanto è accaduto in Europa, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, grazie a quella che è stata definita l’invenzione del “metodo comunitario”. La nascita di una comunità sui generis che da strutture prevalentemente economiche si è evoluta verso un’unione di tipo sovranazionale.
Un processo lungo settant’anni, che è stato capace di progredire e svilupparsi, nonostante la guerra fredda e la divisione in due blocchi del continente europeo, addirittura favorendone la riunificazione dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989.
Per leggere queste vicende, in occasione del centenario della fondazione del PCI, è ineludibile uno sguardo retrospettivo sull’evoluzione della politica dei comunisti italiani dal secondo dopoguerra in poi.
L’assunto da cui partire è la dichiarata appartenenza del PCI al campo delle forze che guardavano all’Unione Sovietica nel nome di un internazionalismo sino ad allora mai messo in discussione, anzi, persino rafforzato dalle asprezze della divisione del continente europeo.
Togliatti e l’unità nella diversità
Da quel momento in poi, nel quadro dell’Alleanza Atlantica (1949), le scelte che riguarderanno l’Europa Occidentale (denominazione che ritroveremo sempre sino alla caduta del Muro) si disconnettono in qualche modo dal ruolo internazionale del PCI. Sappiamo che il PCI svolge un ruolo di primo piano sulle vicende del comunismo mondiale di quel periodo. Certamente grazie alla figura di Togliatti, dirigente dell’Internazionale comunista per lunghi anni; in modo dialettico, però, per i contorni di originalità che, via via, si diede quel partito con la “svolta di Salerno”, il ”partito nuovo”, la “via italiana al socialismo”.
Quanto accade nell’Europa Occidentale, dopo l’avvio del Piano Marshall e del primo nucleo del processo d’integrazione europea con il varo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, 1950), cui seguirà la Comunità economica europea (CEE, 1957) e per tutti i due decenni successivi, vede il PCI collocarsi in una posizione meramente oppositiva. Scelta condizionata dalla sostanziale conferma dell’adesione al blocco sovietico, nonostante la ricerca di un “nuovo internazionalismo” che cerca di fare breccia nelle pieghe dell’ortodossia sovietica.
Togliatti non rinuncia a tentare di correggere la deriva verso cui va incontro il movimento comunista internazionale. Il dibattito e le rotture con la Cina di Mao Zedong, l’attenzione al movimento dei non allineati e la riapertura del dialogo con la Jugoslavia di Tito ne sono una prova. Con il Memoriale di Yalta (1964), che interrompe tragicamente e con toni pessimistici queste riflessioni, Togliatti affiderà alla formula dell’”unità nella diversità” il massimo di margine di manovra che si poteva aprire.
È un processo lento che elude la critica sui fatti d’Ungheria del1956 e che troverà finalmente i toni di un’aperta denuncia solo dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968.
La svolta berlingueriana
Bisognerà aspettare Enrico Berlinguer e gli inizi degli anni ’70, per spingere a fondo il giudizio sulla crisi del modello sovietico e agire con più risolutezza sui vincoli che condizionano lo sviluppo autonomo della politica del PCI e la sua volontà di cercare una sintonia (che poi diventerà dialogo fruttuoso) con le socialdemocrazie europee. Quel dibattito, tuttavia, non riguarda ancora gli sviluppi del processo d’integrazione europea (peraltro durante gli anni ’60 venutosi a trovare in una situazione di stallo), ma si lega alle riflessioni che, lungo l’asse Nord-Sud del pianeta, costituiranno il punto d’incontro tra il PCI e le iniziative di Olof Palme, Bruno Kreisky e Willy Brandt, animate da una visione lungimirante (siamo nel 1972-1975) dei cambiamenti sociali ed economici a livello mondiale.
Anche la linea dei socialisti e dei socialdemocratici europei era rimasta del resto a lungo estranea ai contenuti intrinseci del processo d’integrazione comunitario. Il Programma di Bad Godesberg della SPD (1959) aveva menzionato il termine “Europa” soltanto in riferimento alla prospettiva a lungo termine e generale di un “ordine europeo di pace… e all’Europa Occidentale, come area di cooperazione economica”. Gli sforzi principali erano concentrati sulla necessità di uscire dalla morsa dei blocchi, guardando ad una realtà mondiale in movimento, non solo per la fine dei colonialismi ma soprattutto per le nuove condizioni dettate dalla crisi petrolifera e le sue conseguenze. Si apre un dibattito (cui seguiranno concrete iniziative nell’ambito delle Nazioni unite) per ripensare le ragioni dello sviluppo capitalistico. Si comincia a parlare di “un nuovo ordine economico mondiale”.
Berlinguer e il PCI sono partecipi, in diverse forme, di questa ricerca. E lo fanno cercando una sponda non già nel recinto del movimento comunista quanto nell’impegno di solidarietà verso i movimenti di liberazione nazionale nel “Terzo mondo”, in Asia e Africa, e accanto a quelli che si battono contro le dittature in America Latina. E a partire da lì, confrontandosi con il pensiero e le esperienze della socialdemocrazia europea e dell’Internazionale Socialista. Si tratta di analisi e iniziative che confluiranno più avanti, nella “Carta della pace e dello sviluppo” per il rilancio del dialogo Nord-Sud, per fronteggiare la crisi della distensione e i pericoli della riapertura della corsa al riarmo (sono gli anni della decisione degli Usa di installare i missili Pershing e Cruise in Europa in risposta all’ammodernamento dell’arsenale sovietico con gli SS 20).
L’eurocomunismo
Berlinguer aveva rotto gli indugi già a metà degli anni ’70. L’estate del 1976 diventa cruciale. Comincia con la sua famosa intervista a Pansa sul Corriere della sera (15 giugno), aggiornando il giudizio sull’appartenenza alla NATO. “Sento che, non appartenendo l’Italia al patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento”, afferma.
È una svolta storica perché da quel momento il PCI riconosce l’Europa Occidentale come luogo privilegiato del conflitto anticapitalistico e della difesa degli interessi delle classi lavoratrici.
Il riferimento alla dimensione europea di queste scelte (il giudizio sull’appartenenza all’Alleanza Atlantica e la rinuncia ad uscire dalla NATO) sarà riaffermato da Berlinguer con il suo intervento alla Conferenza di Berlino Est dei Partiti comunisti europei alla fine dello stesso mese di giugno (evento voluto dal PCI e sostanzialmente subìto dai sovietici), dove delinea, si potrebbe dire in forma definitiva, il campo d’azione e la visione di futuro del PCI: quello dell’Europa unita nella Comunità europea.
Niente era facile in quel momento. E infatti il primo nucleo di questa differenziazione nasce nell’alveo dei partiti comunisti occidentali, mentre rimane aperto, seppure sul piano inclinato di una critica sempre più esplicita, il rapporto con i comunisti sovietici. Stiamo parlando dell’eurocomunismo (è stato molto difficile trovare la paternità di questa definizione, una di quelle più accreditate è attribuita a Zbigniew Brzezinski). Una formula che già nella seconda parte dello stesso anno, entrerà nella pubblicistica mondiale. Si trattò di una esperienza che sarebbe presto entrata in crisi per le diverse interpretazioni che gli altri due partner del PCI dettero di quel tentativo: Marchais e il PCF sostanzialmente arroccati sull’ortodossia, seppur diluita nella difesa delle “vie nazionali” e Santiago Carrillo e il PCE sbrigativamente avviati verso un’opzione “revisionista”.
Queste divergenze, tuttavia, non impedirono al PCI di proseguire lungo le linee già tracciate della sua politica e della ricerca di una nuova collocazione internazionale.
Il contributo di Amendola
Come dirà più avanti Giorgio Napolitano, “l’unità della sinistra europea e l’impegno europeistico possono considerarsi la leva di un nuovo internazionalismo”.
Si tratterà di un percorso faticoso. Lo stesso Napolitano parlerà di “apprendistato europeistico” dei comunisti italiani. Con il ricorso persino ad uno sforzo di alfabetizzazione rispetto al linguaggio europeista. Si noti il carattere didattico con cui Giorgio Amendola inizia la sua relazione al Comitato Centrale che varerà il programma del Partito in vista della prima elezione diretta del Parlamento europeo del 10 giugno 1979.
Curioso ma vero, nelle parole d’esordio di quella relazione si parte dalla definizione geografica dell’Europa con tanto di riferimento alle fonti enciclopediche! Segue, subito dopo, la prima importante affermazione secondo la quale “alla realtà geografica corrisponde, nei momenti salienti della storia europea un’unità culturale, anzitutto, ma anche economica e politica”.
Ed è particolarmente interessante la sorprendente analogia con una espressione sullo stesso tema di Antonio Gramsci, che nei Quaderni scrive “… esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali ed uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola “nazionalismo” avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale “municipalismo” .
L’analogia sta nel riferimento “all’economia e alla politica” di Amendola e alle “forze materiali” citate da Gramsci, fattori preminenti della promozione del processo di unificazione europeo.
Nell’analisi di Amendola, tuttavia, anche se si stenta a cogliere le novità prodotte dal processo d’integrazione a partire dagli anni ’50, si solleva giustamente il problema della “democratizzazione della comunità”.
Il nuovo approccio verso l’Europa comunitaria privilegia l’obiettivo primario di garantire la pace, attraverso il disarmo e la “coesistenza pacifica”, così come richiamate nell’Atto finale della Conferenza di Helsinki (1975), ovvero del punto più alto del dialogo tra i due blocchi.
I comunisti al Parlamento europeo
In ogni caso, a partire dal 1979, la declinazione in senso europeistico della visione di un nuovo ordine mondiale, nel quale un’Europa “autonoma” possa svolgere un ruolo importante è ormai un dato evidente ed acquisito da parte del PCI.
L’elezione, prima al Parlamento italiano (1976) e poi a quello europeo, di Altiero Spinelli, in anni lontani addirittura espulso dal Pci, e che intanto era stato Commissario europeo, ne è una cartina di tornasole evidente. Molte testimonianze ci dicono che il rapporto tra Spinelli e i dirigenti del Pci non fu di rose e fiori. Per Spinelli si trattava di avviare concretamente una costituente federale e trasformare la Comunità in Unione europea; per il PCI, ancora timidamente, di utilizzare questa nuova collocazione per contrastare “i monopoli”, portare su un terreno più ampio “la lotta delle classi lavoratrici contro il capitalismo”.
Sarà la mobilitazione per le prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, ad accelerare questa evoluzione. Il Parlamento diventa il luogo del confronto politico con le forze socialiste e socialdemocratiche europee (Berlinguer, deputato europeo, frequentava quasi tutti i mesi le sessioni di Strasburgo dove, oltre a prendere spesso la parola in aula, incontrava Willy Brandt, deputato anche lui e allora impegnato a portare avanti la sua Ostpolitik, così come altri esponenti della sinistra europea). Queste relazioni saranno sempre più intense e così, al Congresso di Firenze del 1986, il PCI potrà definirsi “parte integrante della sinistra europea”.
Intanto la presenza all’interno delle istituzioni comunitarie sollecita un rafforzamento della lotta per “il rinnovamento democratico dell’Europa comunitaria” (Giorgio Amendola), con particolare riferimento ai poteri del Parlamento europeo. Si passa da una visione dell’integrazione “passiva”, ad una “attiva”.
E si realizza la sperimentazione del lavoro in una istituzione sovranazionale, contribuendo all’elaborazione di importanti politiche comuni quali quella agricola, quella dei trasporti, della coesione territoriale, della cooperazione allo sviluppo e poi ancora quella ambientale e così via. Tra i parlamentari del partito che diedero un contributo concreto e di qualità a questa iniziale sperimentazione molti erano tra i cosiddetti “destri” del PCI di allora (una coincidenza sulla quale bisognerebbe tornare a riflettere). Personalità di grande valore come Silvio Leonardi, Aldo Bonaccini, Pancrazio De Pasquale, Guido Fanti, Gianni Cervetti, cui seguiranno però, insieme a molti altri, Luciana Castellina, Luigi Colajanni, Pasqualina Napoletano.
La riunificazione dell’Europa
La caduta del Muro, l’implosione del blocco sovietico che apre la strada alla riunificazione del continente europeo, la crisi e il dissolvimento dell’URSS, chiudono definitivamente una fase storica. Il Pci, subito dopo PDS, con Achille Occhetto è tra i fondatori del Partito del Socialismo europeo (L’Aja, 1992). E i suoi eletti a Strasburgo, dalla fine del 1993 confluiti nel Gruppo socialista, saranno tra i protagonisti dell’iniziativa per il rinnovamento della Comunità europea sino alla sua trasformazione in Unione europea (Trattato di Maastricht, 1992).
Non mancheranno contraddizioni in questo percorso. Di fronte all’impetuosa trasformazione della Comunità, guidata da Jacques Delors, attraverso la realizzazione del mercato unico nel 1992 (premessa di ulteriori svolte che porteranno alla nascita dell’euro), ritorna di tanto in tanto nella politica nazionale del PCI (e di altre forze della sinistra europea) il concetto strumentale del “vincolo esterno”, costituito dalle politiche europee, accettato, nel migliore dei casi, come stimolo per l’adeguamento o la correzione di quelle interne. È ancora lontana la consapevolezza dell’interdipendenza generata all’interno dell’Unione dal processo d’integrazione esteso ormai a campi sensibili della vita economica ma anche delle sue conseguenze sulla vita quotidiana di milioni di cittadini.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora. Quelli che inizialmente erano limiti del PCI e della sinistra italiana sono stati superati, sperimentati con successo in azione di governo (governi Ciampi e Prodi).
I rischi e le sfide del presente
A questi progressi, purtroppo, è seguito in anni recenti un pericoloso appannamento della dimensione europea nelle politiche nazionali. Questa debolezza, si pensi alla Polonia e all’Ungheria, ha superato seriamente la soglia rischiosa del sovranismo e del nazionalismo. Le cause non sono da ricercare solo nelle conseguenze della lunga crisi economica, o nella necessità di affrontare i fenomeni migratori, come strumentalmente si cerca di dire. Nel caso di questi due paesi, e non solo, siamo di fronte ad una vera e propria regressione che porta alla negazione dei valori e dei princìpi dello Stato di diritto a suo tempo accettati per entrare nell’Unione europea.
Contrastare i rischi per l’Europa unita dai risorgenti nazionalismi è una nuova “sfida della storia” e la sinistra del XXI secolo potrà esserne protagonista solo se saprà raccoglierla.
Non si può concludere, però, questa riflessione senza fare riferimento alla forza ri-fondativa che ha dimostrato il progetto europeo di fronte alla pandemia del COVID 19. Il varo del Next Generation Eu, cioè concretamente la decisione di creare un “debito comune” europeo per finanziare la ripresa, con una portata finanziaria mai immaginata, ne è una prova.
Vedremo quali ne saranno gli esiti nella Conferenza sul futuro dell’Europa, appena convocata dalle istituzioni europee.
Questo articolo è tratto dall’intervento svolto durante l’incontro promosso dal Centro per la Riforma dello Stato della Toscana l’11 febbraio scorso nell’ambito del ciclo I cento anni del PCI: “un secolo lungo? “Dall’internazionalismo ai nuovi nazionalismi. Le sfide della storia e il destino della sinistra in Europa”
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