Il passato che non passa, guerre nuove e vecchie parole
Putin che parla di nuova cortina di ferro, i palazzi d’abitazione sventrati dai colpi d’artiglieria, l’Occidente che torna a far massa critica contro l’autocrazia dell’Est. E viene alla mente questo verso: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”. Il momento – con fiumi di terrore che riprendono a scorrere e corpi d‘ogni età dilaniati – non sembra più pascoliano, risuona invece cinico al passo dei tempi. La Storia, con tutte le sue zavorre geostrategiche e culturali, non ha proprio voglia di finire sotto il rullo del Mercato Globale, trascina dietro di sé con ganci d’acciaio le guerre di ieri per saldarle a quelle di oggi. Una metamorfosi del passato che non passa e s’impone sul proscenio in forme nuove. Si può, in nome di un “progresso naturale”, escludere un ritorno perentorio alla logica dei blocchi? Al confronto attivo di sistemi antagonisti? E quali onde d’urto può provocare l’invasione in Ucraina sull’Unione Europea? E nel “gioco” politico nostrano, dove il momento critico lascia, come da tradizione, lo spazio a esercizi di acrobazia?
Il blocco dell’Est con il gigante cinese
Intanto non si può escludere un Blocco dell’Est che, per vie di fatto economiche e di equilibri geostrategici, cementi nuovamente, ulteriormente Russia e Cina. Sino alla fine degli anni Sessanta, i cinesi hanno considerato i russi come dei “fratelli maggiori”, oggi, superata la fase conflittuale tra i due Paesi (meglio: tra i due regimi) vige dal 2001 un Trattato di “buon vicinato” e “cooperazione amichevole”, l’hanno appena rinnovato fino al 2026. L’ultimo a dolersi, insomma, di una invasione cinese a Taiwan sarebbe Putin. La tempesta sanzionatoria dell’Occidente sembra fatta apposta per condurre naturalmente a una maggiore integrazione delle due economie, con l’interscambio energia russa-tecnologia cinese. Entro limiti precisi, questo è sicuro: alla Cina-fabbrica del mondo non conviene proprio giocarsi mercati e proficue interdipendenze sul piano globale.
Dalle nostre parti è in corso – finalmente – una riflessione urgente su un’autonomia “strategica” ed energetica europea, con una riscossa, neppure immotivata, del nucleare. Possibile a partire da quando? Gas russo a parte, le esportazioni agroalimentari dell’Ucraina verso la Ue sono state pari a 5,4 miliardi di euro nel 2020, il mercato globale e le sue convenienze faranno premio sull’indignazione nel caso di un rientro del Paese nell’orbita russa? In fondo facciamo lietamente affari con una dittatura d’impianto classico come la Cina, la voglia di continuare a farli con la Russia non manca.
A invasione iniziata, Putin ha riunito nei giorni scorsi industriali e alti rappresentanti dell’economia per rassicurarli, ma quegli uomini d’affari con le mani in mille paste non sembravano così convinti. Parlavano i volti davanti al solito monologo putiniano, perché i fatturati non versano lacrime, ma pesano. Potrebbe passare dai siloviki (uomini dei servizi segreti protagonisti con lo zar Vladimir di una transumanza per andare al governo di larghe fette dell’economia) e dai potentissimi satrapi delle fonti energetiche uno scossone a Putin o quantomeno un fermo invito a ragionare. Tanto è vero che Gazprom ha appena garantito che non ci sarà alcuna interruzione dell’afflusso di gas verso l’occidente europeo. E lo ha fatto nelle stesse ore in cui arrivavano nuove, durissime sanzioni.
Un Paese “doppio” da sempre in bilico
L’Ucraina è in bilico, i sogni di integrazione europea paiono frantumarsi sotto i cingoli dei carri armati. Per tanti russi, questa estensione a ovest della loro patria dovrebbe semplicemente rientrare nei ranghi dovuti. Sui cieli ucraini il sereno è solo una piccola, transitoria parentesi tra fedeli nubifragi: l’altro ieri i milioni di morti per la carestia staliniana, l’invasione nazista, la terribile mietitura degli ebrei, ieri il giogo sovietico e su, a salire fino ai morti di piazza Maidan. La Storia torna ancora una volta a essere il suo destino. “Denazificare l’Ucraina” ha scandito Putin, un accento forte e chiaro che collegava la strenua resistenza anti-hitleriana della Grande Guerra Patriottica all’invasione “difensiva” di questi giorni (l’estrema destra è agguerrita in Ucraina, certo, ma il sentire della gente è diventato sempre più europeo). Un passo violento, cui – mentre l’Europa guardava altrove – Putin ha pensato fin da quando l’Ucraina si è dichiarata indipendente a larghissima maggioranza nel ’91. E ci ha ripensato ogni volta che un Paese dell’Est aderiva alla Nato, ora forte di 30 entità statali, con le ultimissime entries di Montenegro e Macedonia del Nord. O quando l’Ucraina – pura espressione geografica senza alcun diritto morale di esistere secondo Putin, impegnato ad allentare la “morsa” dell’Occidente ed a ribadire i pretesi diritti della Russia sul vastissimo territorio che va da Leopoli al Donbass – assisteva all’entrata in vigore nel 2017 dell’Accordo di associazione tra Ucraina e Unione Europea e al pressing del premier Zelensky per un ingresso nella Nato.

Europa e Nato sempre più sovrapponibili: è stato un bene, una deriva ineluttabile o un segno della flebile voce unita e della stenta azione di “politica estera” del Vecchio Continente? Stenta e per certi versi sconnessa almeno fino a quando – dopo due anni di sconquasso Covid che già avevano condotto su strade di attiva solidarietà comune – l’atto armato e prevaricante ha funzionato da scossa elettrica, illuminando di colpo il vitale coagulo di valori-integrazione-pace che forma l’Europa. I rischi aiutano a capire ciò che è essenziale in ogni famiglia. Emergenza pandemica-invasione dell’Ucraina: un doppio booster. L’ennesima pagina nuova voltata dalla Storia in questo momento “forte”.
In Russia il tentativo di liquidare un oppositore d’alto rango come Navalny, ora nella colonia penale di Pokrov e la chiusura decisa dalla Corte Suprema dell’ong Memorial sono stati i simboli, i passi determinati verso la soluzione finale dell’attacco. Quanto Europa e Stati Uniti hanno smerciato l’immagine di un Putin semi-impazzito? Troppo. Non poca parte del popolo russo ha avuto una forte difficoltà a smaltire la fine dell’Unione Sovietica (da leggere al riguardo il bellissimo “Tempo di seconda mano” della bielorussa premio Nobel Svetlana Aleksievič), al resto hanno provveduto il muso duro degli Stati Uniti a Gorbaciov che chiedeva aiuto all’Occidente e l’uso poi, a Unione Sovietica sfaldata, della Russia come terreno di neo-colonizzazione. Poco meno di un’invasione, letteralmente, da parte dai capitani di ventura occidentali più aggressivi secondo i canoni americani della “Shock Economy (il capitalismo dei disastri ben descritto da Naomi Klein nel libro omonimo), per di più in un Paese disorientato, con una società civile ben bastonata dal regime sovietico.

Forse Putin oggi è più solo e la campagna d’Ucraina può nuocergli sul piano interno per le congenite arretratezze del sistema politico-economico malato che si è venuto consolidando sotto il suo regno, industrialmente arretrato e dipendente dall’estero, corrotto, quasi totalmente privo della certezza del diritto e sovrabbondante nella certezza della repressione. Peter Pomerantsev lo racconta bene in “Niente è vero, tutto è possibile-Avventure nella Russia moderna”. Per quanto tempo dovremo accantonare l’ipotesi di un benefico contagio democratico nel grande Paese con un piede in Europa e l’altro in Asia?
I salti mortali dei sovranisti nostrani
Lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi, parla la lingua dell’Europa più unita, è quello l’orizzonte che da politico, valoriale, sociale, economico si arricchisce come un tempo di una “necessità” strategica a lungo accantonata. I nostri sovranisti ed euroscettici hanno immediatamente navigato di conserva con lo sdegno delle istituzioni continentali. Tante dichiarazioni avventate e scomposte di Salvini fino all’altro ieri, tipo “Putin è uno dei pochi leader che ha le idee chiare su una società positiva, ordinata, pulita e laboriosa per i prossimi cinquant’anni”, “Stimo Putin gratis” (ai tempi delle missioni d’affari leghiste a Mosca), “Fra Putin e Renzi io scelgo Putin tutta la vita. Putin lo vorrei domani mattina come presidente del Consiglio”, “Putin e Le Pen sono due tra i migliori statisti in circolazione. Noi siamo vicini a chiunque difenda un futuro pacifico per l’Europa”, entrano di diritto e per sempre nel Museo dell’Autosputtanamento, in buona compagnia degli sbandamenti filo-russi di 5 Stelle, Fratelli d’Italia e dell’eterno Silvio B., l’antesignano del putinismo alle vongole col suo “Vladimir Putin è un dono del Signore” del 2010.
Un tristo folclore da consegnare alla memoria vigile degli elettori italiani, mentre nelle fila della destra non bastano più gli smacchiatori e s’impongono riflessioni pesanti. Di sovranità e autonomia nazionale sono stracolmi i programmi della Lega, che in Europa si colloca col gruppo Identità e Democrazia, che annovera, tra gli altri, il Rassemblement National di Marine Le Pen e Afd -Alternative für Deutschland, formazione non aliena da simpatie naziste e sentimenti razzisti, mentre Giorgia Meloni, solo un briciolo più cautamente sta nel gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, l’Ecr, sempre sotto l’egida di un’adesione fortemente critica all’Unione. Tutti e due ora costretti, pur stando all’opposizione nel Parlamento continentale, alla solidarietà europea. Un invito a ripensarsi, a decidere cosa fare da grandi, pena l’irrilevanza e un ostracismo crescente: il vento della Storia soffia da un’altra parte.
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