Il nuovo bipolarismo nella politica italiana: quello tra chi vota e chi non vota

In una democrazia rappresentativa, democrazia è rappresentanza. La crisi della democrazia, dunque, è la crisi della rappresentanza e con questo dato bisogna fare i conti.

L’esito delle ultime elezioni regionali sembra mostrare un paese diviso in una nuova ottica bipolare. Non più un bipolarismo tra destra e sinistra, ma una divisione data tra chi vota e chi non vota. Chi non si reca alle urne contribuisce a consolidare il partito di massa dell’astensione che, da non-piattaforma di maggioranza relativa, diventa riferimento della maggioranza assoluta degli elettori nelle regioni Lazio e Lombardia.

Non si tratta di una fase contingente. Come sottolinea l’Istituto Cattaneo nella sua analisi sui flussi elettorali, pubblicata nel pomeriggio del 15 febbraio, il problema è “riconducibile a fattori ricorrenti e strutturali”. Anche se con dimensioni intermittenti, come puntualizza la riflessione di Roberto D’Alimonte (apparsa sul Sole 24 Ore il martedì scorso), non si può trascurare il fatto che il fenomeno del “non voto” abbia raggiunto forme paragonabili a quelle di un blocco sociale.

Attraverso la procedura del voto, però, si manifesta il principio del consenso. Quest’ultimo chiama in causa il suo contraltare per eccellenza, il dissenso, che si mostra nei modi più diversi. In termini di procedura elettorale, consenso e dissenso sono sempre stati considerati due facce stessa medaglia, espressi con la preferenza verso un partito, o un candidato, piuttosto che un altro. Oggi, il dissenso si manifesta in forme elettoralmente più sottili e più risolute rispetto alle normali regole del voto. La diserzione dalle urne, infatti, non solo non produce una scelta diretta, ma si pone in chiave ostruzionistica verso le tradizionali forme di selezione della classe dirigente politica. La “non scelta” diventa strumento di contrasto a chi si candida.

Paradossi

Questo nuovo elemento su cui riflettere determina una serie di paradossi difficili da governare e che alimentano ulteriormente la crisi della democrazia rappresentativa. Da un lato si consolida il predominio di una democrazia senza elettori, perché i più non si riconoscono come tali. Dall’altro, gli eletti, frutto dei pochi voti in circolazione, rischiano di avere una ampia forza politica senza la piena legittimità popolare per poterla esercitare, per utilizzare il titolo di un celebre libro di Piero Ignazi.

Si dirà che questo cambia poco le carte in tavolo. Perché, ugualmente, chi vince governa e a pesare sono sempre le percentuali ottenute e non il numero dei voti espressi in valore assoluto. A dire il vero, questa considerazione è condivisibile solo fino a un certo punto. Una democrazia poco competitiva, come quella descritta da Mauro Calise, difficilmente può rappresentare una evoluzione rispetto al dibattito di massa che la democrazia italiana, benché mai pienamente compiuta, aveva prodotto fino a qualche anno fa. Al contrario, rischia di tramutarsi in un clamoroso passo indietro anche sul piano giuridico oltre che su quello politico.

MILANO – Votazioni elezioni regionali, seggi elettorali presso la scuola primaria fratelli Ruffini – ph DUILIO PIAGGESI – agenzia Fotogramma

Naturalmente la crisi dei partiti, piattaforme che consentivano alle istituzioni di essere irrorate di istanze sociali e ai suoi rappresentanti di vivere continui momenti di accountability, facilita gli alti livelli di astensione e si inserisce dentro un quadro di sfiducia verso le istituzioni rappresentative ben più ampio. Ciononostante, benché gli astenuti colpiscano tutti i partiti, non tutti gli schieramenti ne risentono allo stesso modo. Se, come ha dichiarato la Presidente del Consiglio, le elezioni regionali contengono un primo bilancio anche per l’esecutivo nazionale, chi si sente vicino alle posizioni di centrodestra sa benissimo chi e che cosa votare. L’attuale maggioranza di governo, infatti, ha una sua idea di paese e delle identità forti che vuole preservare. Si può essere d’accordo o meno, ma è una realtà. Chi non si sente affine a questo schieramento, al contrario, non ha una piattaforma strutturata, condivisa, con un programma preciso cui rivolgersi. Salvo poche eccezioni, l’opposizione in questo momento si è autocondannata alla irrilevanza e il non voto è, in buona parte, un dissenso a questa debole consistenza.

Si badi bene che il centrosinistra non paga soltanto l’incapacità di costituire un fronte unito. Pur essendo, quest’ultimo, un problema politico non di poco conto. La delusione a sinistra ha radici profonde e si concreta nella momentanea impossibilità di una grossa fetta della sua classe dirigente di sintonizzarsi con le “attese della povera gente”. Dove l’Ulivo radicava le proprie radici, non si disegna più una linea programmatica sui grandi temi del paese. Nemmeno sul giudizio sui primi mesi del governo Meloni il Partito democratico sembra concordare con se stesso, come dimostrano le ultime dichiarazioni del suo segretario nazionale.

Competizione persa in partenza

L’assenza di una alternativa valida, genera una competizione persa in partenza. Quindi una non-competizione. Eppure, la realtà così delineata può offrire spunti di riflessione e di opportunità a tutti gli attori in commedia.

Sul piano strettamente politico, per il centrosinistra questa può essere l’ennesima occasione per ripensarsi e per immaginare un percorso di rifondazione che agisca nell’ottica del tridente: la battaglia parlamentare; la costruzione di un pensiero politico di lungo corso che individui i nodi dell’esistente e la forma partito con cui esprimersi. Per il centrodestra l’astensione, a fronte della quale vince con largo distacco, può costituire una prova di maturità. Agire, dunque, non tanto per rinforzare le proprie fila, ma per conquistare quegli strati della popolazione che guardano con sospetto alla nuova fase politica. Chi governa, infatti, non può ignorare l’astensione, pena un possibile effetto boomerang alle prossime elezioni nazionali.

Uno sforzo democratico

Sul piano istituzionale, invece, questo può essere il momento giusto, sia per il Parlamento nazionale sia per le assemblee elettive regionali, per recuperare un antico principio mai dimenticato: la rappresentanza serve a dare presenza a chi non c’è e non può esserci. In quest’ottica l’Assemblea, sia essa nazionale che locale, può assumersi il diritto e il dovere di interloquire con (e lavorare con convinzione anche per) coloro i quali non hanno contribuito alla selezione dei suoi componenti. Si affermerebbe così quella funzione assembleare di coordinamento tra le parti sociali che, grazie agli strumenti di cui godono le istituzioni parlamentari e consiliari, può permettere ad una società sempre più divisa di ritrovare unità nelle sedi opportune. Questo, naturalmente, presuppone che chi adempie alle funzioni rappresentative si adoperi per discutere con mondi che risiedono ben oltre la propria constituency. Lavorando non più solo secondo il proprio programma elettorale o il proprio bottino politico, ma assumendo sulle proprie spalle una missione istituzionale finalizzata al rafforzamento delle istituzioni democratiche e al componimento dei vari interessi in gioco, spesso disattesi.

Uno sforzo democratico, insomma. Perché alla crisi della democrazia si deve sempre rispondere con più democrazia.