Il Nobel riapre la questione del clima:
il nostro disinteresse ci costerà caro
La coincidenza è casuale ma istruttiva. Mentre in Corea del sud, nella città di Incheon-Songdo, l’Ipcc – l’organismo scientifico delle Nazioni Unite che studia i cambiamenti climatici – sta per pubblicare il suo nuovo rapporto sul “climate change”, da Stoccolma arriva l’annuncio che il Premio Nobel per l’economia 2018 è stato assegnato ai due economisti americani William Nordhaus e Paul Romer per le loro ricerche sui rapporti tra cambiamenti climatici, innovazione tecnologica e andamenti macroeconomici. A Nordhaus si deve in particolare l’elaborazione del primo modello integrato per valutare gli impatti dei cambiamenti climatici sull’economia.
La coincidenza è istruttiva perché certifica in modo inoppugnabile che la comunità scientifica – non solo la comunità degli studiosi che indagano direttamente sul clima che cambia, ma anche quella di chi si occupa di scienze umane e sociali qual è l’economia – non ha più dubbi né sul fatto che il clima stia cambiando a ritmi del tutto inediti, e stia cambiando per cause “antropiche” (l’uso di combustibili fossili, la deforestazione), né sul danno che tale dinamica accelerata comporta e comporterà per il benessere economico dell’umanità.
Le notizie che arrivano dalla Corea sono sconvolgenti: a oggi è molto probabile – dicono gli scienziati dell’Ipcc – che la temperatura media terrestre crescerà entro il 2030, rispetto ai livelli pre-industriali, oltre quella soglia di 1,5 gradi centigradi considerata come “limite critico”, superato il quale i costi ambientali, sociali, economici sarebbero fuori controllo.
Il punto di contatto con le ricerche di Nordhaus è tutto in questi due aggettivi: sociali ed economici. Perché le ricerche dell’economista americano premiato con il Nobel affermano una verità troppo a lungo rimossa: i cambiamenti climatici non sono un astratto problema ecologico. A rischiare, cioè, non è come spesso si ripete il nostro “pianeta”, che nella sua storia ha vissuto sconvolgimenti climatici assai più apocalittici di quello in corso. No, a rischiare siamo noi esseri umani, è il nostro modo di vivere ed è la nostra stessa vita.
Il tempo, dunque, stringe sempre di più, ma per chiudere il cerchio delle risposte manca all’appello un protagonista decisivo: la politica. Tre anni fa la Conferenza sul clima di Parigi sembrò preludere a scelte politiche globali finalmente conseguenti con l’obiettivo di fermare rapidamente l’aumento delle temperature e gli altri fenomeni connessi al “climate change”: moltiplicazione e intensificazione degli eventi meteorologici estremi come alluvioni e siccità, scioglimento dei ghiacci e innalzamento del livello di mari e oceani, avanzata dei deserti… Scelte che consistono, soprattutto, nella costruzione di un modello energetico non più basato come oggi sui combustibili fossili. Questa rivoluzione dell’energia è in atto da tempo, ma corre troppo lentamente rispetto ai tempi dei cambiamenti climatici: questo confermano una volta di più le conclusioni dell’Ipcc.


Nei suoi studi, Nordhaus si è occupato molto di come agire con efficacia contro il “climate change”. La sua “ricetta” è chiara: se ci si vuole liberare in tempo dalla dipendenza dai combustibili fossili vi è solo una strada, tassare con severità le emissioni di anidride carbonica che è il gas maggiormente responsabile dei cambiamenti climatici e le cui emissioni antropiche provengono essenzialmente dalla combustione del carbone, del petrolio e del gas.
E’ la ricetta, peraltro non nuovissima, della “carbon tax”, a parole sostenuta anche da tanti politici ma nei fatti rimasta finora lettera morta. Per cominciare ad applicarla, ci vorrebbe una politica capace di guardare veramente al bene comune. Ci vorrebbero, insomma, dei veri “governi del cambiamento”.
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