L’inno all’essere al mondo,
le laudi alla vita di Marcoaldi
Nel 2015 esce Il mondo sia lodato di Franco Marcoaldi, una raccolta che, fin dal titolo, invita il lettore ad assumere un ruolo attivo, dandogli, al tempo stesso, molto a cui pensare. Che si tratti del 2015, del 1915 o dell’anno Mille, lodare il mondo in sé non è infatti impresa facile, e questo non solo per la violenza che agita la società umana sotto la sua apparente razionalità – la “banalità del male” di Hannah Arendt –, ma per la “gratuità” del male. Il male che arriva all’improvviso, colpendo chi meno se lo meriterebbe e sfuggendo ad ogni nostro tentativo di individuare una giustizia cosmica.
Eppure quel titolo, Il mondo sia lodato, evoca San Francesco, la meraviglia e lo stupore di fronte al creato. Solo che Marcoaldi, nell’incipit della sua raccolta, non canta
“fratello sole” o a “sorella luna”, ma se stesso, la gratuità del proprio essere in vita:
“perché gli occhi si aprono e/ ho un cuore che batte e so/ respirare, perché merita lode/ il sorriso ed il pianto“.
Questo semplice stupore biologico, su cui per un attimo si sofferma il pensiero, si lega, nei versi successivi, all’esplosione di sogni che caratterizza l’essere umano. La gioia motoria e la proiezione immaginaria verso il futuro restano sempre, in Marcoaldi,
strettamente legate, anche se ogni individuo realizza questo legame in modo diverso,
secondo il proprio carattere, attraverso riti laici, quotidiani, non per questo meno
trascendenti:
“per chi nuota da anni nella stessa/ corsia, per quel giovane uomo/ che grida sarai sempre mia,/ per chi insiste a buttare/ la palla a canestro/ e ha la tasca ricolma di stelle”.
Quando la quotidiana trascendenza dell’individuo non riesce a resistere alla rovina delle cose, e il tempo si frantuma, sono le immagini della natura a ricordarci quanto la vita si origini dalla morte, in una continua metamorfosi – “per quella begonia aranciata/ che avvinta a un morto/ eucalipto dilaga sfrenata –/ Mondo, ti devo lodare”– e a riportare l’uomo alla riflessione filosofica:
“perché io impari che tutto si tiene/ franando e che nulla, franando,/ si perde? Anche per questo, Mondo, ti devo lodare”.
Senza il male, non esisterebbero la solidarietà, il coraggio umano. L’importante è ricordarsi, davanti al “portento/ terribile e glorioso”, che non si è gli unici a ricevere i colpi della vita:
“se la prepotenza sua ci schiaccia/ rendendoci impotenti,/ l’avventura umana/ che ci è data/ ci sfianca sì, però ci lega/ in un’unica cordata –/ avvinti alla luce”.
La lotta per l’esistenza attraversa il tempo, la cifra simbolica del padre è riconosciuta proprio nel momento in cui se ne comprende la transitorietà, la spinta generativa in cui finisce per annullarsi, insegnando al figlio ad essere a sua volta padre:
“ho pensato a quando mi padre/ con le sue mani grandi e curate/ aveva piantato quel giovane/ arbusto che negli anni è cresciuto,/ è fiorito e ora è stato/ abbattuto… Epperò ha generato”.
La poesia stessa segue questo ritmo continuo tra ricerca di sé e dissoluzione. Così
l’io lirico ricorda quando, da bambino, immaginava un interlocutore ideale che lo aiutasse a capirsi, e ad osservare con sguardo benevolo la vita:
“Negli anni non ho mai/ avvicinato al Dio dei cristiani/ quel custode dell’anima/ infante, quell’amico ideale/ cui allora, tremante,/ affidavo nel buio le ore più sole./ Eppure, ancora lo cerco/ quel mio angelico doppio/ benigno e sapiente,/ che mi insegni a sconfiggere/ il tetro fantasma del male”.
Al tempo stesso è l’alterità radicale che consente di portare alla luce le parti più fragili e nascoste dell’io:
“Forse cerchiamo fratelli di sangue/ nei posti sbagliati. Forse/ ci è familiare soltanto/ chi ci è veramente straniero –/ perché nel frattempo, e senza/ saperlo, siamo diventati/ stranieri a noi stessi”.
La poesia attraversa allora una molteplicità surreale, popolata di figure estranee e al tempo stesso familiari: “Penso ai nani/ dell’ultimo circo di Ostia/ che buttano gli ultimi
pezzi/ di carne avariata all’ultima,/ decrepita tigre”; “Penso al cameriere barbuto,/ tutto preso dal Dio a cui si è/ votato, che continua a servire/ un piatto che nessuno/ ha ordinato”.
In fondo, nel teatro d’ombre in cui la verità è continuamente cercata e si cela, l’importante sembra essere dare voce al canto, con una generosità e disponibilità al
cambiamento che ricorda Il poeta di Rilke: “Io non ho amata, non ho dimora,/ non ho, per vivere, un luogo certo./ Ed ogni cosa a cui mi dono/ diventa ricca e mi spende”.
Franco Marcoaldi, Il mondo sia lodato, Einaudi, Torino 2015.
Sostieni strisciarossa.it
Strisciarossa.it è un blog di informazione e di approfondimento indipendente e gratuito. Il tuo contributo ci aiuterà a mantenerlo libero sempre dalla parte dei nostri lettori.
Puoi fare una donazione tramite Paypal:
Puoi fare una donazione con bonifico: usa questo IBAN:
IT54 N030 6909 6061 0000 0190 716 Intesa Sanpaolo Filiale Terzo Settore – Causale: io sostengo strisciarossa
Articoli correlati