L’ostinata fiducia
nel senso
del cammino scelto
Una fotografia non proprio a fuoco: Enrico Berlinguer, Giorgio Rossetti (allora segretario regionale del PCI, dal 1984 parlamentare europeo per due legislature) ed io, molto molto giovane, a Muggia, nel novembre 1983 al funerale di Vittorio Vidali.
“Questa fotografia è un miracolo” mi scrisse Giovanni Montenero, il fotografo, a febbraio scorso inviandomela via mail. Un “miracolo” che spiega l’imperfezione, dovuta alla commozione, alle lacrime che riempivano in quel momento gli occhi dell’autore.
Quel giorno di novembre, in Campo San Giacomo a Trieste, a salutare Vidali – “un rivoluzionario che ha conosciuto tutte le carceri, ha visto tutti i paesi ed ha combattuto un po’ ovunque” (come riportato in un rapporto del 1938 al Prefetto di Trieste) – anche la voce emozionata di Rafael Alberti (1902 – 1999), poeta spagnolo militante (si direbbe oggi).
Vidali lo incontravo qualche volta, all’alba degli anni 80, sulle scale della Federazione autonoma del PCI in via Capitolina, mentre scendeva per andare a casa quando noi, studenti medi, preparavamo volantini per il giorno dopo. “Buonasera”, “Con permesso”, “prego”, un cenno di saluto referenziale; mai niente di più, credo mai un “ciao” perché incrociavi un pezzo di storia, un protagonista assoluto del novecento, l’impegno politico da giovanissimo, la mobilitazione negli USA per salvare Sacco e Vanzetti, il Messico e Tina Modotti, la guerra di Spagna, “il ritorno alla città senza pace. Il 1948 a Trieste” (titolo di uno dei suoi tanti, circa 12, libri di ricordi e testimonianze).
Al tempo stesso, la fascinazione di Berlinguer. La sua elaborazione sulla questione giovanile, quella più ampia sui temi che riguardavano la questione femminile, la questione morale, la sfida della pace e della guerra, l’elaborazione intorno alle idealità, il rinnovamento della politica.
La critica a una concezione della politica tutta tristi mercanteggiamenti, un’idea del potere per il potere, l’umiliazione di capacità e competenze, la gestione burocratica dell’esistente, priva di qualsiasi tensione ideale e morale.
E tutto questo si teneva allora assieme in una militanza nata dopo la bomba alla stazione di Bologna ma anche sulla straordinaria mobilitazione di tanti giovani impegnati nella solidarietà verso le popolazioni dell’Irpinia colpite dal terremoto del 23 novembre 1980. Un terremoto che si era infilato come un coltello nella piaga, in una delle parti più diseredate del nostro paese.
Una tragedia nazionale che colpiva un popolo “da decenni in bilico tra modernismo consumista e arcaismo, in balia di uno sviluppo economico contraddittorio e distorto che da una parte produce privilegi e guadagno facile e dall’altra emigrazione, povertà, arte di arrangiarsi…” (dal libro bianco sul terremoto a cura della Fgci del gennaio 1981).
Erano anche gli anni delle grandi manifestazione per la pace, di Comiso, per una Europa senza missili dal Portogallo agli Urali. Come ha scritto Luciana Castellina “la manifestazione di Roma (del 24 ottobre 1981, ndr) fu il segno della presa di coscienza delle nuove generazioni su come era fatto il mondo reale, fonte di una nuova ondata di politicizzazione dopo i terribili anni della parabola terrorista che aveva indotto i più a chiudersi dentro casa”.
E, se non erro, qualche mese prima della foto – nel settembre dell’83 – della marcia per la pace promossa dai comunisti umbri e dalla Fgci, che si concluse, con Berlinguer marciatore, ad Assisi.
Poi, ovviamente, venne anche altro, nuovi scenari, che ci impegnarono su altri fronti, a partire dai temi del lavoro e dalla formazione (do you remember i CFL?)… però…
Insomma, tornando all’inizio: la capacità, la forza rievocativa di una foto.
A monte, dietro, sotteso che sia… a me pare di leggere attorno a quell’immagine, o così a me piace pensare, un significato alto della politica e “l’ostinata fiducia nel senso del cammino scelto”.
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