Il nuovo esecutivo
un’occasione
per riunificare la sinistra

Nel discorso del 2 febbraio il Presidente Mattarella ha presentato, con una franchezza per alcuni versi irrituale, i termini essenziali del problema italiano. La triplice natura di una crisi – sanitaria, economica, sociale –, le scadenze improrogabili per l’utilizzo dei fondi europei, i gravi rischi connessi all’ipotesi di uno scioglimento anticipato delle Camere, ricordati in forma puntuale dal Presidente, rappresentano chiaramente solo l’espressione visibile di un ritardo più profondo, che segnala una crisi (per adoperare un antico ma ancora nitido linguaggio) strutturale e non solo congiunturale del sistema nel suo complesso e che rivela una persistente inadeguatezza della classe politica a interpretare e affrontare le sfide che essa comporta.

Un ceto politico è arrivato ad esaurimento

Non si tratta, è bene dire subito, di un ritardo dovuto soltanto alle capacità amministrative del ceto politico o al tipo di alleanze prospettate, ma piuttosto di un limite di analisi, di una difficoltà a comprendere i processi di trasformazione che, negli ultimi mesi, hanno cominciato a investire il quadro mondiale, con l’irruzione di una violenta pandemia, capace di alterare i rapporti economici e di devastare gli equilibri sociali, il successo di Joe Biden negli Stati Uniti, il diverso ruolo che l’Europa, con la presidenza di Ursula von der Leyen, va assumendo nel contesto geopolitico. Un limite di analisi (per certi versi comprensibile, considerata la velocità inaudita dei mutamenti) che determina a cascata insufficienze politiche ed errori strategici, nella condotta della sinistra e non solo della sinistra. Come è stato scritto da diversi opinionisti, con la fine del governo Conte-bis è una intera classe politica – quella formata nel ciclo aperto all’inizio degli anni Novanta – che sembra pervenuta al suo finale esaurimento. La sequenza analisi-strategia-politica si è spezzata e gli effetti della pandemia (che significano, è opportuno sottolinearlo, una trasformazione generale del quadro mondiale) lo hanno dimostrato in maniera impietosa.

Per la seconda volta (dopo la formazione del governo Conte-bis) Matteo Renzi ha dimostrato di possedere antenne più sottili (perché non riconoscerlo?), operando bensì una pericolosa e imprevista destrutturazione dell’ordine politico, cosa che non a torto gli viene rimproverata, ma anche scoperchiando contraddizioni e antinomie che covavano nella fragile intesa governativa. Le forze di sinistra hanno perseguito l’obiettivo strategico di una alleanza organica con il Movimento 5 Stelle e hanno riposto molta fiducia nella figura di Giuseppe Conte, considerando l’uno come una costola della stessa sinistra e l’altro come espressione di un nuovo centro politico, per certi versi proveniente dalla tradizione del cattolicesimo democratico. In questa analisi c’era qualcosa di vero, almeno l’auspicio di correggere le forze alleate, di depurarle via via degli errori iniziali (il populismo, la precedente intesa con la Lega) e di prospettare una coalizione progressista capace di fron-teggiare il consenso della destra.

È anche vero che queste forze appaiono instabili, quasi transitorie, come sospese fra trasformazione e dissoluzione. Rimane il fatto, però, che sui nodi fondamentali, come le politiche dello sviluppo e le riforme strutturali, per non parlare della concezione della democrazia, l’evoluzione auspicata è rimasta modesta e incompiuta, costringendo l’azione di governo a faticosi e spesso infecondi compromessi. Per citare un solo esempio, il reddito di cittadinanza si è rivelato una misura utile per fronteggiare la povertà ma pressoché inutile per incrementare l’occupazione. E altrettanto dovrebbe dirsi per la scuola e la giustizia.

Il processo di destrutturazione del quadro democratico

Ciò non significa che la linea politica costruita da Pd e Leu debba essere considerata come un banale errore di prospettiva. Vedo affiorare giudizi ingenerosi e, in definitiva, affrettati. Non era sbagliato lavorare per realizzare un fronte ampio di alleanze, facendo i conti con la presenza maggioritaria del M5S in Parlamento e con la fragilità di un centro moderato. Questi due aspetti, d’altronde (come la persistente debolezza culturale della stessa sinistra), rappresentano gli esiti più evidenti di un lungo processo di destrutturazione del quadro democratico e del sistema dei partiti. Il M5S si trova a un bivio, costretto a scegliere tra una deriva populista e una riconversione, non poco profonda e accidentata, verso una forza progressista post-ideologica, sul modello dei partiti verdi e ambientalisti europei. Così come le diverse anime del centro, oggi frammentate e litigiose, saranno prima o poi costrette a fondersi. I tempi si sono rivelati immaturi, ma una sinistra unificata sul terreno politico e, soprattutto, rinvigorita sul piano culturale, sarà certamente chiamata a condurre una politica unitaria, nel tentativo di costruire uno schieramento democratico capace di fermare la minaccia della destra sovranista. Possiamo dire, in breve, che la strategia di Zingaretti (e Bettini), ancorché corretta, non ha corrisposto ai tempi di sviluppo delle forze politiche, e perciò ha fallito.

Se la fine del governo Conte-bis indica l’esaurimento di un intero ceto politico, la possibilità di un governo guidato da Mario Draghi rappresenta una occasione per conseguire due risultati rilevanti. In primo luogo può rendere praticabile un vero e proprio compromesso tra le forze produttive del paese (e le loro rappresentanze politiche) per lo sviluppo nazionale, con misure straordinarie contro la pandemia, un uso razionale dei fondi europei e l’avvio di riforme strutturali nei settori strategici (industria, mezzogiorno, scuola, ricerca e così via), in stretta sintonia con le istituzioni europee. Per ragioni evidenti, nessuno meglio di Draghi può realizzare questi obiettivi, che nessuna coalizione di partiti potrebbe oggi assicurare. In secondo luogo (ed è un aspetto essenziale) il nuovo governo, garantito dalla presenza attiva della massima autorità dello Stato e da un ampio consenso del parlamento, potrebbe permettere una ricomposizione organica delle forze politiche, con la progressiva costituzionalizzazione di una destra liberale, la formazione di un centro e la crescita di una sinistra. La stessa presenza della Lega nella maggioranza può rappresentare un problema solo se la sinistra si dimostrasse incapace di imporre gli assi portanti della sua agenda politica.

La sinistra deve ritrovare il percorso egemonico

Come ha scritto Michele Prospero (e io concordo con lui nell’essenziale), la sinistra ha bisogno di costruire un partito del lavoro, cioè un soggetto politico radicato nella realtà produttiva della nazione. Questo obiettivo implica alcuni passaggi fondamentali. In primo luogo la riscoperta di un discorso di sinistra, di una sua autonomia e, direi quasi, di una sua potenziale autosufficienza come percorso egemonico, a partire da un’analisi realistica dei rapporti sociali e dalla costruzione di un concreto blocco sociale, con l’obiettivo di elaborare un progetto riformatore di lungo periodo dello sviluppo nazionale. In secondo luogo, partito del lavoro non dovrebbe significare, in senso stretto, la fondazione di un partito nell’accezione tradizionale, organizzativa, del termine (al di là dell’auspicabile ricongiungimento, in sede politica ed elettorale, delle diverse forze che si sono incautamente divise); ma piuttosto un processo di ricomposizione strategica, progettuale, tra soggetti politici, sociali, economici e culturali, attraverso un confronto serrato e quotidiano che impegni, anzi tutto, partiti, sindacato, associazioni, forze intellettuali. La formazione di un nuovo soggetto, insomma, fondato sul valore del lavoro, che rappresenti tutta l’articolazione, ampia e plurale, della sinistra italiana.