Tecno-populista? Ma no,
il governo Draghi fa rotta altrove

Il populismo, volendo rappresentare una politica non partigiana, che si pone al di sopra delle parti e che per questo si circonda di un’aura di oggettività, rischia di piacere anche ai sostenitori dei governi tecnocratici, desiderosi di sbarazzarsi delle lunghe e inutili discussioni politiche, facendo leva su dati oggettivi, inconfutabili a tal punto da non consentire strade alternative a quanto proposto. Nadia Urbinati, studiosa raffinata e attenta all’analisi di questi fenomeni, ci invita da tempo a lavorare sulle possibili analogie tra anti-politica populista e anti-politica tecnocratica, entrambe ostili alle forme deliberative, al pluralismo ideologico o partitico, a quella dialettica tra maggioranza e opposizione che storicamente ha visto nel parlamentarismo inglese, molto caro a Max Weber, un modello da imitare anche sul continente.

Il concetto che meglio esprime l’avvenuto compimento di quella che sembrava solo una possibile analogia è ‘tecno-populismo’ (‘techno-populism’), ripreso e analizzato anche nel recente volume di Carlo Invernizzi Accetti e Christopher Bickerton. Alle analogie però, e soprattutto alla loro applicazione alla vita politica reale, occorre fare sempre molta attenzione. Analogia è di per sé, infatti, un termine ambivalente, che significa appunto compresenza di elementi comuni ed elementi differenti. E’ corretto a partire da queste considerazioni definire Mario Draghi e il suo governo tecno-populista?

La risposta al populismo

La domanda nasce da un recente dibattito sul riformismo che a distanza ha coinvolto vari studiosi e politici. Il Recovery Plan e la sua versione nazionale (PNRR) sembrano rappresentare proprio il contrario del tecno-populismo. Entrambi rappresentano la sconfitta della ricerca tecnocratica e insensibile alle sofferenze sociali conseguenti in primo luogo alla crisi del 2008, ma certo di più lunga data, essendo una chiara messa in mora del pareggio di bilancio e delle politiche ispirate al fiscal compact. In primo luogo perché essi favoriscono un ‘debito buono’ (che è la politica e non la tecnica a decidere), volto a definire riforme necessarie e a creare lavoro in primo luogo per giovani e donne, rispetto ai quali, dati alla mano, l’Italia è penultima in Europa.

Su questi aspetti Draghi ha chiesto unità nazionale, come anche in passato è accaduto in presenza di contingenze tragiche, richiamando in questo frangente le virtù creative e imprenditoriali del nostro popolo. Mai però nelle parole del premier si è avvertito l’eco della contrapposizione tra un popolo buono e un popolo corrotto, tipica dell’approccio populista, finalizzata a creare una superiorità morale di chi sta dentro rispetto a chi resta fuori. L’attenzione che questo governo sta esprimendo, certamente anche in presenza di molti limiti, alle politiche del lavoro e alle pari opportunità per i/le più vulnerabili è anzi l’unica via per offrire una risposta politica e sociale al populismo.

salviniInoltre, non si può certo dire che il governo Draghi sia frutto dell’arretramento dei partiti, che ne fanno invece parte integrante, e che nelle due settimane di consultazioni hanno fatto presente al banchiere/politico padre del ‘quantitative easing’, le loro idee e convinzioni, e che hanno poi continuato a farle sentire, forse fin troppo ad alta voce, fuori dal governo. Se c’è stato in Italia un governo tecnocratico, in tempi più recenti rispetto al governo Dini della fine degli anni ’90, questo è stato il governo Monti, che ha fallito proprio perché non è riuscito a costruire intorno alle riforme un consenso sociale. Questo Draghi lo ha ben capito, anche perché il coro a più voci dei tanti, forse troppi, partiti che lo sostengono sta lì, e giustamente, a ricordarglielo ogni giorno.

Meglio ricchi che liberi?

E’ un dato di verità che l’arretramento sulla tutela dei diritti sociali nel seno delle liberaldemocrazie abbia dato fiato alle dinamiche populiste, abbia compromesso la credibilità delle liberaldemocrazie e dato vita a modelli di democrazia autoritaria, illiberale e regressiva, che oggi competono con essa; dalla Russia di Putin, alla Cina di Xi Jinping, alla Turchia di Erdogan, all’India di Modi; da ultimo, nel cuore dell’Europa, l’Ungheria di Orban. La perdita della memoria del lato oscuro della storia del Novecento, guerre e totalitarismi, rende meno attente le giovani generazioni rispetto al tema dei diritti politici, alla rilevanza della partecipazione e della discussione nello spazio pubblico. Invertendo l’idea proposta da Amartya Sen che diritti politici e di libertà ci consentono di meglio esprimere anche i nostri bisogni economico-sociali, è sempre più diffusa l’idea che sia preferibile essere ‘ricchi’ piuttosto che ‘liberi’, con la conseguenza che si ritiene sempre meno essenziale vivere in regimi democratici piuttosto che autoritari.

La politica democratica, se sarà in grado di rispondere con efficacia alla crescita delle disuguaglianze, potrà anche decretare non solo la sconfitta del populismo e della tecnocrazia, ma anche il valore della deliberazione, della discussione e di uno spazio pubblico in cui cittadini e cittadine consapevoli criticano e discutono con responsabilità. Il coraggio del Presidente degli Stati Uniti e la sua attenzione alla lotta alle disuguaglianze e alla povertà, che include importanti scelte in termini di politiche fiscali e tassazione progressiva, è un buon punto di vista da cui guardare per la ricostruzione successiva alla pandemia anche nel nostro paese e nel contesto europeo. Un buon punto di vista anche per Mario Draghi, sebbene in casa nostra il progressismo sia incarnato da partiti che esprimono identità deboli rispetto ai partiti della destra.

Anna Loretoni è docente di Filosofia politica epreside della Classe di Scienze sociali presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa