Governismo malattia senile della sinistra. No ad accordicchi Pd-M5S
La razionalità in politica è un postulato sempre problematico. Ma la precipitazione verso condotte del tutto irrazionali resta comunque un evento sorprendente, anche in un tempo così lungo di latitanza di ceti politici attrezzati al ruolo. La prima vittima di un uso irrazionale delle proprie carte è stato Salvini. Non si è mai visto un aspirante colonnello che è già al potere, per giunta in una condizione di supremazia di fatto, e poi lascia incautamente sfuggire la propria influenza, per una mossa estiva incerta e costosa. La lontananza dal Viminale, usato come megafono della celere volontà di ascesa leghista, minaccia lo sgonfiamento degli effetti magici di una macchina di propaganda che usa il migrante come nemico reale verso cui orientare risentimenti, odi, paure.
I governisti stringono d’assedio Zingaretti
Ma irrazionale è anche la condotta nel centro-sinistra di tanti antichi rivali, Prodi e D’Alema, Bersani e Renzi, che in una vocazione governista stringono l’assedio a Zingaretti per indurlo ad errori irrimediabili. La stella di Salvini si è al momento spenta da sola, con l’azzardo d’agosto, da cui è scaturita la reazione di un ampio schieramento di forze parlamentari che lo ha isolato nella richiesta di irresponsabile dissoluzione delle Camere. Dinanzi ad una forzatura, un autentico strappo costituzionale del capitano paralizzato dall’incombenza di una legge finanziaria che va condita con i numeri reali, il Pd non poteva arroccarsi nella sua pur giusta posizione: alla crisi del governo gialloverde si risponde con voto. Questa asserzione in astratto corretta, equivaleva però in concreto a fornire un supporto passivo alla volontà distruttiva di Salvini.
E quindi, valutare l’opportunità di una alternativa al voto d’ottobre richiesto a gran voce dal vento padano, è stato un saggio comportamento per restituire al capo dello Stato alcune prerogative costituzionali violate sfacciatamente. La negazione alla bocca di Salvini del potere di rompere la legislatura, ha già prodotto un effetto politico positivo che lo ha indebolito e ha accantonato, per il momento, il disegno di dominio. Spingersi oltre il sobrio linguaggio delle istituzioni, che confida nella autonoma valutazione del Quirinale per delineare i passaggi necessari per spezzare un intrigato nodo istituzionale ed economico, è però un azzardo, imperdonabile. Il tiro concentrico, per indurre Zingaretti alla resa e costringerlo a siglare un governo politico di legislatura in una posizione del tutto subalterna, corrisponde ad un atto di induzione al suicidio politico.
Un colpo alla credibilità della politica
Il M5S, che era destinato al giusto oblio per la manifesta incapacità di governo, e per la responsabilità dell’avvocato del popolo nell’aver supportato e tollerato nell’esecutivo condotte di stampo fascista, ora è d’incanto sollevato dalle sue colpe storiche e addirittura posto nella ghiotta condizione di liberarsi di due piccioni con una sola fava. Il declino elettorale annunciato si trasforma in una centralità riconquistata per grazia ricevuta. E così la marginalizzazione minaccia più da vicino gli amici, ora diventati traditori, della Lega e il nemico Pd che, coinvolto in un gioco di sponda, non è più il regime, la casta. L’amnistia, accordata ad un anno di governo del cambiamento, non è per nulla un atto indolore.
Comporta la inevitabile conseguenza, distruttiva per la credibilità della politica, che parole, immagini, atti, documenti, leggi non contano nulla. Che tutto può essere cancellato, in una insostenibile leggerezza della rimozione che annichilisce ogni principio di responsabilità. Insomma, la banalità del male. La politica smarrisce ogni significato di analisi, di coerenza nei principi, di lucidità nella strategia e si riduce alla ricerca spregiudicata di postazioni di governo. Una ossessiva invocazione di cariche, risparmia la fastidiosa comprensione delle ragioni della sconfitta e l’individuazione dei modi per ricostruire i legami smarriti con la società.
Una manovra di palazzo non legittima la svolta
Non è possibile, neanche in una democrazia molto malata pronta a consegnarsi a un capitano bonapartista, che dopo un distruttivo governo del contratto, che ha varato l’esecutivo più a destra della storia repubblicana, si riprenda il cammino degli ammiccamenti per concordare un nuovo governo del contratto sia pure “dettagliatissimo”. In nessun paese le forze che hanno votato per il commissario europeo si tramutano in una maggioranza politica di governo. Non è politicamente sostenibile l’operazione che, con una semplice manovra di palazzo, trasforma un governo euroscettico, nato con l’incidente della rimozione d’imperio del ministro Savona, in un esecutivo eretto addirittura a presidio della nomenclatura europea. Che senza la verifica di un voto popolare, e in mancanza di atti pubblici trasparenti per un esame critico dell’esperienza di governo che imponga la revisione della condotta seguita, si cambi la stampella della maggioranza alternando destra e sinistra come alleati, costituisce una complicazione della crisi organica della politica, non una soluzione.
Zingaretti sancisce la fine prematura della sua leadership se accetta di entrare da comparsa nei giochetti condotti in nome di un malinteso realismo politico. In verità gli abboccamenti con il M5S sfuggono alla dimensione politica per approdare, in ultima istanza, al potere assoluto rinchiuso nell’arcano mondo della Casaleggio. Con il M5S non si ha mai un rapporto solo politico, la parola conclusiva nelle scelte più rilevanti spetta sempre all’azienda proprietaria del non-partito. Entrare in questi oscuri sotterranei della politica invisibile, nei quali si intrecciano presenze di potenze interne e internazionali, comporta enormi rischi. E’ vero che, pur avendo il doppio dei seggi, i grillini sono diventati lo zimbello di un capitano con in dote la metà dei voti. Ma tra un populismo forte e un populismo più debole, quello più irresponsabile e grossolano assorbe sempre il più timido e reticente. Con il Pd il rapporto si annuncia esattamente opposto, con il Nazareno ridotto a facile preda delle maschere di un comico, strapazzato a piè sospinto dalla macchina della comunicazione di un blog che sa essere ad elevata irresponsabilità.
Caro Pd non temere le urne
Se la distanza tra due forze che provano a dialogare è abissale (per quanto riguarda l’idea di partito, il senso della politica, il valore della democrazia, il destino della rappresentanza, il ruolo dell’Europa, la funzione dei sindacati, la radice antifascista della repubblica, la nozione di diritto individuale e di libertà, lo spazio del lavoro, il risvolto epistemologico della scienza e della competenza), procedere con cautela è un obbligo. La malattia senile del governismo, che contagia un vasto spettro che dal Manifesto arriva a Franceschini, può recidere gli ultimi spazi disponibili per la ripresa di una sinistra in Italia. Che due forze ostili possano venire a patti è sempre possibile in politica ma che lo facciano come se nulla fosse accaduto, illumina più di ogni altra cosa sullo stato deprimente delle culture politiche di oggi.
La caduta del governo svela l’inganno genetico del M5S che, dalla parola d’ordine iniziale “no al compromesso”, mai alleanze, passa senza batter ciglio alla richiesta di un compromesso continuo e alla ricerca di alleanze con qualsiasi interlocutore presente sulla scena. E mostra anche la disperazione del capitano che, ormai senza più munizioni, urla alla vendetta della piazza contro il palazzo. Il Pd, sempre aperto alle raccomandazioni che possono venire dal Colle, non deve temere le urne, come un pericolo. La rimozione delle schede non è prova di responsabilità, somiglia piuttosto alla condotta scriteriata delle élite senza popolo di certi paesi arabi. Per arginare le forze fondamentaliste, ricorrono ad accrocchi che però non servono a nulla perché i soldati del Corano esibito come libro del politico si vedono rispuntare ovunque e ancora più forti di prima.
L’ultimo togliattiano, Emanuele Macaluso, invita alla battaglia politica, sociale, culturale contro le due destre. E ha ragione, anche nel disprezzo che egli esplicita per l’assoluta pochezza politico-ideale di quello che resta tra gli epigoni spaesati di quel grande mondo.
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