Il fronte operaio dal Frejus alla Tav

“Pesa già” dico io. È una gerla grande per mezzo quintale a riempirla di legna. Ma la cicoria è leggera. “Come mai pesa? E non è nemmeno piena. Che cosa vi hai messo?”

“Verdura selvatica” mia madre dirà. “Che altro potevo mettervi?”

Poi le chiedo: “Pensi di cucinarla tutta oggi?”

“Si capisce” dice mia madre. “Per domani la prendo domani.”

“Tu esageri” osservo. “Noi non ne mangiamo. È troppa roba per il nonno.”

“Troppa?” Strillerà mia madre.

“Gli fa dilatare lo stomaco” io osservo.

“Troppa per un uomo come tuo nonno?”

“Non può fargli bene.”

“Troppa col poco pane che gli tocca?”

“Gli darà i crampi. Non può fargli bene.”

Mia madre si è fermata nel suo atteggiamento di quando sfida tutti. “Ma tu non l’hai mai guardato!” grida. “Un uomo che è come un elefante!” Ha quasi disprezzo negli occhi, Per chi? Per noi che non siamo, pur essendo suoi figli, come era il nonno?

“Ah!” mi dice. “Non avrei mai creduto di non vedere da vecchia quello che vedevo da bambina…”

“Cioè?” domando.

“Cioè” mia madre grida. “Cioè! Cioè!” e mi dice: “Un uomo, cioè, che è giovane come un elefante giovane, e che fa, a busto nudo, cose da elefanti… Che strappa un albero da terra, cioè…”

“Questo” io l’interrompo” nessun elefante l’ha mai fatto.”

“Sì” mia madre continua. “Con la proboscide. E lui con le mani. Cioè con la forza delle braccia. O che demolisce” continua “il muro di una casa spingendo con le spalle…”

Io di nuovo l’interrompo: “Ma è assurdo. Vengono addosso le macerie.”

“E che cosa potevano fargli?” mia madre dice. “Si scrollava ed era pulito di nuovo. Aveva la pelle così liscia” continua.”Ed era stato al traforo del Frejus, il preferito tra migliaia di operai persino dagli ingegneri. Se lo contendevano” continua. “E al traforo del Sempione lo stesso.”

Ormai è lanciata, e continuerà: noi non possiamo non tornare ad apprendere ogni giorno quello che ha fatto nella sua vita nostro nonno, trafori ed edifici, ponti e ferrovie, acquedotti, dighe, centrali elettriche, strade.

E il Duomo?

E il Duomo.

E il Colosseo?

E il Colosseo.

E La muraglia della Cina?

E la Muraglia della Cina.

E le Piramidi?

E le Piramidi.

Mia madre non direbbe di no a niente che le si chiedesse se vi abbia lavorato il nonno. Egli è come un elefante, dice. Tutto è venuto dalla sua fatica. Egli, dice. Chi, egli?

Non sono “il nonno” per noi anche gli altri che furono al Sempione e al Frejus con lui? E che cosa è per noi ognuno che fu alla fabbrica del Duomo?, come il nonno al Frejus? Che cosa è per noi ognuno che, come il nonno al Frejus, fu al Colosseo? Che cosa ognuno, idem idem, che fu alla Muraglia della Cina? Che cosa ognuno che fu alle Piramidi? Eh? Che cosa?

A un duecento metri dalla nostra casa, verso città, stanno riparando un lungo tratto di strada. Lo stanno asfaltando. Hanno un rullo compressore e con quello passano, la sera per riporlo, la mattina per torlo, attraverso la spianata ch’è tra il parco e noi. Schiacciano l’erba, la trattrice e il rullo dietro, con due operai fuligginosi, e dopo che sono passati ci viene in casa un forte aroma che sembra si sprema tutto il bosco.

Uno degli operai, ogni volta, non il seduto ch’è al volante, l’altro ch’è all’impiedi, ci fa un cenno e ci ride coi suoi denti bianchi di uomo dalla faccia nera.

A chi di noi?

Magari a tutti noi. Alla nostra porta spalancata, alle molte donne che abbiamo in famiglia, alla mole del vecchio che sta seduto un passo più in qua della soglia. Una delle volte che torniamo insieme, mia madre e io, troviamo il fresco di quell’odore sulla spianata. “Com’è che hanno smesso alle undici di mattina?” mia madre dice.

Entriamo in casa e abbiamo la risposta. Ce la dà l’uomo stesso che ci ha salutati ogni giorno dalla trattrice del compressore. “Abbiamo finito, signora” dice.

Non è giovane, ora che è vicino; il nero del fumo sulla faccia non lo fa più, ora che è vicino, ragazzo come ci pareva; lo fa sì gioviale, rallegrante da vedere, ma non cela i molti anni del suo muso minuto.

“Andate a lavorare da un’altra parte?” mia madre gli chiede.

“Questo non si sa” egli dice. “Ma qui abbiamo finito, può darsi ch’io non passi più da qui intorno, e allora mi sono presa questa libertà. Ho voluto dire addio al signore qui e a voi tutti, se me lo permettete…”

“Ah!” mia madre dice.

Lui dal muso di fumo è già seduto, gli hanno messo uno sgabello accanto al nonno, e lui ci sta sopra tenendosi appoggiato al ginocchio di mio nonno con una mano che lo copre in parte. E batte sul ginocchio del nonno la sua mano.

“È solo questione” egli dice “che avevamo stretto un po’ d’amicizia… Col mio passare tutti i giorni io lo vedevo, lui mi vedeva, e un po’ di amicizia si è fatta… Ci si strizzava l’occhio. Forse ho abusato di confidenza con uno della sua età. Io non ho ancora finito il mio tempo. Avrei potuto essere il suo garzone. Ma ho cominciato e lui mi ha risposto”

(Elio Vittorini, “Il Sempione strizza l’occhio al Frejus”, 1947)