La coincidenza intriga: sono cinque anni dalla elezione di Jorge Maria Bergoglio al soglio Pontificio e sono cinquanta anni dal 1968. Intriga indagare le connessioni fra il papa “movimentista”, che ha preso il nome del poverello di Assisi, e l’anno della rivolta studentesca. Non, però, quella del maggio, dell’immaginazione al potere, della libertà sessuale, della pillola anticoncezionale da poco scoperta. O anche sì, poiché nacquero allora le tensioni fra le ragazze e i ragazzi credenti, partecipi dei cambiamenti generazionali, e i dogmi legati alla sacralità del matrimonio. Ma guardando, invece, al grande fermento delle comunità di base, dei preti operai, dei cattolici del dissenso, dei preti nei baraccati e della scuola di Barbiana.

 

Non sarà per caso se il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, a 24 anni, nel 1966, era un angelo del fango a Firenze, la Firenze di don Enzo Mazzi, della comunità dell’Isolotto. La nomina di Bassetti, da parte di Bergoglio, è stata inaspettata e sorprendente, nella linea della promozione di quei vescovi che non governano grandi diocesi ma hanno “l’odore di pecora”. Non sarà nemmeno per caso che quel grande fermento cattolico cristiano sul finire dei Sessanta, che ebbe epicentro all’università di Lovanio, seguiva l’appena concluso Concilio Vaticano II, e nemmeno casuale che anche la comunità di Sant’Egidio abbia festeggiato con il papa i suoi primi cinquant’anni. Né si può ritenere che il papa arrivato “quasi dalla fine del mondo”, come disse lui stesso Urbi et Orbi nella sera della sua elezione, poco più che trentenne nel 1968, cresciuto nel continente percorso dalle teologie della liberazione e torturato dalle peggiori dittature della seconda metà del Novecento, il papa che mette in testa il lavoro, l’ambiente, e dice di sé “chi sono io per giudicare”, non si sia abbeverato a quella cultura. Gualtiero Bassetti, in un intervento organizzato dall’Ucsi (Unione cattolica stampa italiana), ha indicato Giovanni XXIII e Paolo VI come quelli a cui più assomiglia a papa Francesco e ha richiamato anche l’attitudine profetica di don Primo Mazzolari.

 

E, però, nemmeno si può pensare che lo sguardo di Bergoglio sia come quello dell’Angelus Novus, rivolto indietro, alla storia. Gli studiosi sono divisi sul bilancio dei cinque anni del suo pontificato, al messaggio, alle parole dirompenti che fanno evangelicamente scandalo, seguono poche riforme concrete, nella Curia, dallo Ior alla commissione sulla pedofilia. Per non dire della forte opposizione, senza precedenti, che Bergoglio sperimenta, sembrerebbe, senza troppo preoccuparsene ma anzi consentendola, da parte di vescovi e cardinali.

 

Andrea Riccardi, nel volume da lui curato e appena uscito per gli Anticorpi Laterza (Il cristianesimo ai tempi di papa Francesco, pag. 375 euro 22), lascia aperta la domanda “su quanto il tempo di papa Francesco inciderà nella storia di lungo periodo del cattolicesimo”, ma prova a capovolgere la lettura, partendo non dal personaggio ma dallo stato di salute della Chiesa nel “nuovo ambiente creato dalla globalizzazione”: fluidità, caduta dei confini, facile comunicazione dei messaggi, migrazioni, convivenze inedite tra popolazioni, fine delle appartenenze ideologiche o tradizionali, geografia delle emozioni. A cui corrispondono una serie di reazioni “identitarie, antiglobali e post-globali, nazionali e religiose. Non solo Jihad contro Mc World ma anche populismi e nazionalismi cristiani”.

 

Il Novecento, il secolo più secolarizzato della storia, ha in realtà prodotto un enorme revival religioso, il tempo fluido favorisce lo sviluppo del neo-protestantesimo di cui i movimenti prolife sono espressione sintomatica. Nell’elezione del primo papa non europeo c’è anche la stanchezza per l’arroccamento sui “valori non negoziabili”. Il papa argentino porta a Roma l’esperienza della megalopoli sudamericana, forte dei risultati di Aparecida, la conferenza episcopale nella quale i vescovi latinoamericani hanno ricucito il rapporto con le teologie della liberazione. Nell’esperienza della megalopoli sta la sfida della chiesa globale, poiché la globalizzazione mette in crisi l’idea che la Chiesa ha mutuato dall’impero del presidio territoriale. “Oggi non è solo lo Stato ma anche la Chiesa che perde sovranità territoriale”. Prima di tutto cresce la città e si moltiplicano le megalopoli: nel 2007 gli abitanti delle zone urbane superano quelli delle campagne … Si moltiplicano le città globali con periferie estremamente difficili da presidiare attraverso la rete delle parrocchie territoriali”.

 

Al di là delle sollecitazioni che da questo sguardo derivano alle culture politiche della sinistra e alla loro crisi, crisi di insediamento territoriale, crisi di sovranità degli Stati, si comprende che l’eredità dei preti operai, delle comunità di base possano rappresentare un metodo di riferimento rispetto alla perdita di territorialità (e alla perdita del proprio esercito, poche ormai le suore, pochi anche i sacerdoti) per una Chiesa che sconfina alla ricerca del proprio popolo anche verso i laici non credenti. Chi, fra gli estimatori, vede in ciò il segno che potrà durare nel tempo lungo, invita a non sopravvalutare l’assenza di riforme perché, per papa Francesco, “le riforme organizzative e strutturali sono secondarie … La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento” (A. Spadaro, Intervista a papa Francesco, La civiltà cattolica, 19 settembre 2013).

 

Contro la banalità della contrapposizione fra il papa teologo ma incapace di comunicare e il papa pratico ma debole sul piano teologico è insorto lo stesso “papa emerito” Ratzinger. E contro la banalità di quella contrapposizione lo storico Agostino Giovagnoli scrive che non basta l’etica a spiegare l’insistenza del papa sulle periferie e sulla povertà. “Il tema dei poveri è stato sviluppato da Francesco nell’Evangelii gaudium in due prospettive complementari: da una parte con un approccio economico e sociale che denuncia le cause strutturali della povertà; dall’altra, con un approccio culturale e storico che guarda ai poveri come gli scartati e gli esclusi e li considera dal punto di vista teologico”. Il povero “non è nella Chiesa l’assistito ma il prossimo, un membro del popolo di Dio”. Le conseguenze di questa scelta investono tutta la Chiesa e la sua stessa architettura: i poveri devono passare dai margini al centro, poiché le periferie sono il futuro della Chiesa. Un elemento cruciale per uscire dalla Chiesa palazzo ed edificare una Chiesa-tenda che si muove nelle periferie delle grandi megalopoli contemporanee”. (A. Giovagnoli, papa Francesco e il suo tempo, in “Il cristianesimo di papa Francesco”, cit. , pagine 358-359).