Il fallimento di Utet Grandi Opere
e la grave crisi del mercato del libro
C’è sempre di mezzo il coronavirus, ahimè. Capita anche con i libri ed è facile intuire perché: lockdown, blocchi, chiusure, saracinesche abbassate, lettori più o meno forti, più o meno fedeli che si chiudono in casa, numeri che crollano. In realtà, del ritorno alla vita nell’estate scorsa non hanno beneficiato solo le discoteche: anche le librerie hanno vissuto un rinnovato flusso di clienti e le vendite sono riprese. Senza esaltazioni: siamo da sempre il paese che legge meno, fisso ai gradini più bassi delle graduatorie europee, siamo un paese che legge malissimo, vittima delle pessime abitudini clientelari della tv (possibile che ad ogni sua esternazione letteraria, Bruno Vespa debba godere di passerelle ovunque, qualunque sia il canale televisivo?), vittima di un degrado culturale che è sotto l’occhio di tutti, meno vittima di quanto si creda della cosiddetta comunicazione online…
Ma di questo passo entrerei nel delicato campo della qualità, come è ovvio assai più contestabile di quello della quantità: il peso, magari un po’ truccato, è quello che è, non abbiamo strumenti per contraddire le classifiche che ci vengono settimanalmente propinate dai quotidiani, sotto l’orripilante testata “i più venduti”.
Il tema della qualità ci induce a riprendere, con rammarico conseguente, quanto scritto, su facebook, da Raffaele Simone, studioso di linguistica e di filosofia del linguaggio, lungo insegnamento alla Sapienza: “Ricevo la comunicazione che la Utet Grandi Opere è stata dichiarata fallita. Dopo anni di pene e di gravissimi errori di gestione, chiude la più antica casa editrice italiana (1791), a cui dobbiamo magnifiche collezioni di classici di ogni arte e di diverse scienze e una tradizione di dizionari, dal Tommaseo-Bellini al Battaglia al De Mauro al mio (il Grande Dizionario Analogico della Lingua Italiana), di trattati e di enciclopedie che non ha pari al mondo, per non parlare di collezioni che hanno fatto la storia culturale d’Italia, come la Scala d’Oro”. Non è esattamente così e infatti il professor Simone precisa: “Ricevo da varie parti, inclusi da alcuni addetti della Utet libri, la segnalazione che a fallire è stata la Utet Grandi opere, ma che le altre denominazioni Utet (Libri, Giuridica, Medicina) sono sempre vive, anche se tutte queste branche appartengono a società diverse…”. Nessuno può negare però che, quando si dice Utet, si pensa subito all’editore di enciclopedie, trattati, classici. La notizia è questa. Con l’aggiunta che di Utet Grandi Opere era già stato chiesto, otto mesi fa, al Tribunale di Torino il concordato preventivo. La giustificazione: l’emergenza sanitaria avrebbe reso impossibile elaborare un piano di rilancio… Gli azionisti della società editrice avevano deciso la liquidazione in una assemblea di fine marzo, come si legge su Soldionline. Si chiamava “Cose Belle d’Italia”.
Tra le “cose belle d’Italia”, la Utet ha avuto ovviamente la sua parte, testimonianza di cultura e di coraggio imprenditoriale. Una storia nata dall’intuizione di Giuseppe Pomba che decise di trasformare una piccola bottega tipografica, sorta a fine Settecento, in un’impresa editoriale e a creare nel 1854 la Utet, Unione tipografico editrice torinese, con l’idea di impegnarsi nella pubblicazione di grandi opere, come la Biblioteca Popolare, la Storia Universale di Cesare Cantù, l’Enciclopedia Popolare. Seguiranno altri titoli importanti e risultati commerciali importanti (anche grazie al “porta a porta”, impedito ora dal covid). Dagli anni Ottanta la casa editrice si espanderà, con la nascita di nuove sigle: la Utet Libreria, la Utet Periodici Scientifici. Nel 2002 la casa editrice verrà acquisita da De Agostini che, nel 2013, cederà la partecipazione in Utet s.p.a. alla società Fmr Art’è, con il settore delle Grandi Opere e delle opere di pregio distribuite attraverso il canale della vendita diretta. Il Gruppo Utet Grandi Opere-Fmr, infine, dal 2014 diventerà parte di Cose Belle d’Italia.
Non saprei dire se la fine di Utet Grandi Opere sia un episodio o il segno di una crisi antica che avanza. Il 2020 ha la sua vicenda particolare. L’anno scorso, quando ancora si respirava normalità, Riccardo Franco Levi, presidente dell’Associazione italiana editori, spiegava al pubblico del Salone di Torino che l’industria del libro è ancora la prima industria culturale del nostro paese, messa male, ma comunque attiva. Indicava una crescita del mercato nei canali trade (librerie con i due terzi delle vendite, online, grande distribuzione organizzata, a cui era stata aggiunta la stima di Amazon), ma alla lieve risalita del fatturato si contrapponeva la diminuzione delle copie (circa quaranta milioni a fine anno). Paesaggio pressoché immobile, stagnante: nei dodici mesi tra il marzo 2018 e il marzo 2019 la penetrazione della lettura (romanzi, narrativa di genere, graphic novel, manuali e saggistica) nella popolazione 14-75 anni è rimasta stabile al 60 percento, nel medesimo periodo si è confermata al 64 la percentuale delle persone che si dichiarano lettori, non solo di libri, ma anche di ebook o di audiolibri.
Sono comunque prove di resistenza, prove che non sono stati in grado di sostenere invece, rimanendo tra informazione e formazione, i giornali, la cui diffusione si è dimezzata negli ultimi dieci anni. Prove di resistenza che non escludono tanti interrogativi, non solo per l’Italia. Ne propongo uno: per quanto ancora le nostre pagine respingeranno l’assalto del digitale (penso di proposito ai “grandi libri”, alle enciclopedie, ai dizionari, tolti di scena dall’invadenza dei vari wikipedia)? Robert Darnton, professore ad Harvard, direttore della biblioteca universitaria di Harvard, studioso della rivoluzione francese (“Il grande massacro dei gatti”: per la fame, ovviamente, dei parigini), in una bella raccolta di saggi, “Il futuro del libro” (Adelphi), ci conforta, grazie ad alcuni solidi argomenti: la bellezza e la maneggevolezza di un volume, la durata dello stampato (mentre non conosciamo quella dei supporti digitali), la stabilità testuale (per quanto un romanzo o un saggio vengano rimaneggiati, la carta consente sempre di tornare all’originale, non so quanto ci possa invece garantire Google). Infine “la lettura a video rimane un surrogato di molto inferiore alla lettura sul cartaceo… Persino io che mi vanto di essere un pioniere dello stile di vita incentrato sul web, se devo leggere testi che superano le quattro cinque pagine, me li stampo, perché mi piace averli con me e scriverci sopra i miei commenti…”. Così disse Bill Gates.
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