Meno diritti e mobbing non punito, così cresce il disagio mentale al lavoro

Capita. Si sta male psicologicamente per cause estranee al mondo del lavoro, ma si deve andare in ogni caso a lavorare. Oppure si sta male mentalmente per motivi che c’entrano col mondo del lavoro (come la precarietà o le vessazioni subite dai parte dei propri superiori), però non si può rischiare di perdere l’occupazione.

In entrambi casi, questo tipo di disagio, al contrario di quello provocato da malattie fisiche o infortuni, spesso non viene condiviso dal lavoratore con gli altri colleghi: in media, un italiano su quattro non lo dice a nessuno, né ufficio né in fabbrica.

La percentuale di chi tace sale al 30,6 % tra chi ha un impiego nel settore dei media e del marketing e al 36,4 tra chi ha più di 55 anni. I giovani tra i 16 e i 24 anni sono i meno timorosi: “solo” il 10,8% nasconderebbe totalmente il problema.

Un disagio silenzioso

Questi dati emergono dal sondaggio “Workforce View 2019” di Adp Italia, che si occupa di consulenza per la gestione delle risorse umane. E offrono un punto di vista poco conosciuto sul mondo del lavoro italiano.

La prima domanda è stata, in sintesi: se tu avessi problemi di salute mentale, sul posto di lavoro con chi ne parleresti? Il 32,60% degli intervistati ha dichiarato che sarebbe disposto a parlarne soltanto nel caso avesse amici presenti nel luogo in cui lavora, il 31 lo farebbe con i colleghi, il 25 con nessuno, il 15 con il capo, il 12,1 con la direzione del personale.

Nel sondaggio si esamina anche l’interesse delle singole aziende rispetto ai problemi di salute mentale. Il 32,50% dei lavoratori intervistati dichiara che la propria azienda non appare interessata alla salute mentale dei propri dipendenti. Il 36,9 afferma che l’azienda è interessata solo superficialmente. Soltanto 8 lavoratori su 100 sostengono che l’azienda appare molto interessata.

È una situazione che preoccupa chi si occupa di quella che, piuttosto freddamente, viene definita “gestione delle risorse umane”.

“Quello del disagio mentale costituisce ancora un nervo scoperto in Italia”, ha dichiarato Virginia Magliulo, general manager di Adp Italia. “Ancora una buona fetta dei lavoratori italiani mostra ritrosia nel parlarne nell’ambito di uffici e fabbriche. Ciò accade per motivazioni diverse, ma, soprattutto, per il timore che venga giudicata la propria performance negativamente. Un ascolto continuo e un feedback puntuale concretizzano un più stretto rapporto tra i dipendenti, manager e vertici aziendali. Solo così verranno del tutto liberate le potenzialità e la creatività del lavoratore, che può sviluppare il proprio senso di appartenenza all’azienda e sentirsi pienamente coinvolto negli obiettivi aziendali”.

Diritti mortificati

Di certo, la questione del disagio psichico nei luoghi di lavoro è aperta e spesso trascurata. Un tipo di disagio, aggiungiamo noi, che probabilmente appare in aumento anche a causa della notevole mortificazione dei diritti dei lavoratori causata dall’applicazione della legge Fornero, varata durante il governo Monti, e del Jobs Act renziano.

Proprio su questo fronte il nuovo governo dovrebbe dimostrare discontinuità rispetto al passato, rimettendo mano ad alcune norme intollerabili, che non sono più state toccate: lo stesso cosiddetto “Decreto dignità” (DL n. 87/2018) varato dal precedente governo non ha affatto riformato gli aspetti più punitivi nei confronti dei lavoratori. Cosicché nel settore privato anche i posti definiti “a tempo indeterminato” sono diventati di fatto “a tempo determinato”, perché i datori di lavoro hanno ottenuto la possibilità di licenziare in modo illegittimo, a loro piacimento.

Tra Fornero e Jobs act

Ricapitoliamo: nel 2012 la riforma Fornero si è occupata di “Disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore”. Con le modifiche apportate dall’art. 1 c. 42 L. 92/2012 ha cambiato l’articolo 18 della legge 300/1970, lo Statuto dei Lavoratori, per quel che riguarda le aziende con più di 15 dipendenti.

L’articolo 18 nella sua formulazione originaria consentiva al dipendente licenziato illegittimamente di essere reintegrato nel posto di lavoro oppure, a sua scelta, di ottenere un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità di retribuzione globale, fermo restando, in entrambi i casi, il diritto al risarcimento del danno. Grazie alla riforma Fornero, si applicano le disposizioni precedenti a rarissimi casi e, nei rimanenti, il lavoratore licenziato illegittimamente ha diritto solo a un’indennità in denaro.

Il Jobs Act renziano ha peggiorato le cose: varato nel 2015 (Dlgs. n. 23/2015), è riuscito a fare ancora più felici sia il padronato che la destra. Come? L’articolo 18 è stato eliminato del tutto per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Insomma, il datore di lavoro è incoraggiato a licenziare chi gli pare, tanto – anche quando viene stabilita l’illegittimità del provvedimento – il giudice non può più reintegrare il lavoratore (se non in casi davvero marginali) e l’azienda è tenuta esclusivamente al versamento di un’indennità.

Lavoro precarizzato

Come sono stati giustificati questi provvedimenti? Con la lotta alla disoccupazione, perché risponderebbero a due presunte esigenze: incentivare gli investimenti, specialmente quelli stranieri, e favorire le assunzioni a tempo indeterminato.

Risultato: invece di rendere più sicuri i precari, sono stati “precarizzati” gli assunti. Ha scritto su Ilfattoquotidiano.it il giuslavorista Alberto Piccinini: “La libertà di licenziare ‘a poco prezzo’ condiziona tutto il rapporto di lavoro durante il suo corso, favorendo la possibilità di abusi, intimidendo la parte debole e inibendola a rivendicare diritti”.

Aggiunge l’avvocato del lavoro Stefano Chiusolo: “La reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato dovrebbe essere l’architrave su cui si basa il diritto del lavoro. Crolla tutto una volta che la reintegrazione viene eliminata nella maggior parte dei casi, come è accaduto con la legge Fornero e soprattutto con il Jobs Act. E di fatto il lavoratore, sapendo che in caso di licenziamento ben difficilmente potrà recuperare il posto di lavoro, non protesterà neppure di fronte alla violazione del suo più elementare diritto”.

Grido strozzato su un muro di Viterbo foto Umberto Verdat

È chiaro che questa situazione è alienante per i lavoratori, più facilmente ricattabili e maltrattabili rispetto al passato. Questa situazione è aggravata dal fatto che le cause davanti ai giudici del lavoro (salvo alcuni tribunali più fortunati) possono durare moltissimi anni, durante i quali il dipendente ingiustamente licenziato deve trovare il modo di lavorare altrove (in un periodo in cui è molto difficile scovare nuove occupazioni), sostenere la famiglia e pagare un avvocato.

Nessuna legge sul mobbing

Inoltre l’Italia non ha ancora una legge che punisca il mobbing, cioè i comportamenti intimidatori da parte di datori di lavoro, dirigenti e colleghi; cosicché chi vuole denunciare atteggiamenti vessatori e abusi deve affrontare uno slalom così lungo, stressante e oneroso da scoraggiare quasi chiunque. In Parlamento giace da aprile del 2019 una proposta di legge del M5S per contrastare il mobbing in ambito lavorativo.

Ecco come: “Chiunque, nel luogo o nell’ambito di lavoro, si rende responsabile di atti, omissioni o comportamenti di vessazione, discriminazione, violenza morale o persecuzione psicologica, reiterati nel tempo in modo sistematico o abituale, che provochino un degrado delle condizioni di lavoro tale da compromettere la salute fisica o psichica ovvero la professionalità o la dignità della lavoratrice o del lavoratore, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da euro 30.000 a euro 100.000″.

Sono considerati aggravanti la violenza morale e psicologica compiuta nei confronti di una donna incinta o nel corso dei primi quattro anni di vita del figlio oppure “gli atti, le omissioni o i comportamenti… commessi dal superiore gerarchico”.

Che fine ha fatto questo opportuno progetto di legge anti-mobbing? Non si sa. Di certo, il nuovo governo dovrebbe trovare la voglia e il coraggio per riformare la legge Fornero e il Jobs Act, per rendere più veloce anche in questo campo la giustizia e per creare sacrosante norme contro il mobbing. Altrimenti la precarietà dei lavoratori, la loro ricattabilità e le pressioni indebite nei loro confronti non potranno che aumentare, insieme al disagio psicologico che troppi italiani, in ufficio o in fabbrica, cercano di nascondere, per il timore di perdere l’occupazione.