Covid-19 e carceri,
ora il nemico è
il sovraffollamento

La situazione nelle carceri da quando è scoppiata l’epidemia è molto pesante e tende purtroppo ad aggravarsi. L’esperienza dei giorni scorsi e anche le tensioni che si sono manifestate nelle ultime ore negli istituti di Santa Maria Capua Vetere e di Secondigliano ci dicono che potrebbe esplodere da un momento all’altro una bomba sanitaria, con una diffusione incontrollata dei contagi e rivolte di detenuti, provocate dal panico dell’infezione e in qualche caso fomentate o persino provocate ad arte da elementi criminali. Eventi gravissimi e luttuosi – nelle sommosse di un mese fa ci sono stati già dei morti – che metterebbero a rischio la sicurezza della collettività.

È accaduto e sono ancora in essere le condizioni per cui potrebbe succedere di nuovo. Gli effetti di una simile deriva sarebbero tragici, giacché sono in gioco sia la tutela della vita e della salute dei reclusi che la sicurezza di migliaia di agenti della polizia penitenziaria e di tutti coloro che negli istituti penitenziari lavorano con passione e dedizione, ai quali più che mai in questo momento deve  andare la gratitudine del Paese per il duro lavoro che compiono per il bene della nostra convivenza civile.

L’eterno sovraffolamento

Il sovraffollamento è il primo problema che dobbiamo affrontare. Si tratta di un male antico nei nostri istituti di pena, ma che in questo momento sta assumendo il carattere di una emergenza immediata e altamente drammatica. In altri paesi la questione è stata affrontata con provvedimenti vòlti a ridurre la pressione: è accaduto in Francia, dove la ministra della Giustizia Nicole Belloubet ha annunciato l’imminente passaggio dal carcere agli arresti domiciliari di seimila condannati cui restano da scontare meno di due mesi di reclusione, in Spagna, nel Regno Unito, dove è stato messo a punto un sistema di permessi temporanei per i detenuti non violenti, in Germania e in tutti gli altri stati dell’Unione europea, negli Stati Uniti.

Ma provvedimenti simili sono stati presi anche in paesi assai meno attenti ai diritti umani come la Cina, l’Iran, dove sono state scarcerate 54 mila persone, il Marocco, dove il re Mohammed VI ha ordinato la liberazione di quasi 6 mila reclusi, la Turchia, dove il regime di Erdoğan ha restituito la libertà a ben 90 mila detenuti, pur con l’odiosa discriminazione di escludere dal beneficio gli oppositori politici e i giornalisti. Persino nel Brasile di Bolsonaro trentamila detenuti sono stati liberati con decreti emanati da diversi stati federali. Si tratta solo di qualche esempio: l’elenco degli stati che hanno adottato provvedimenti per sfoltire gli istituti di pena è lunghissimo.

Seguire questa strada

carcere, prigioneAnche in Italia si deve seguire questa strada, e presto. Lo hanno chiesto voci autorevolissime, a cominciare da quella di Papa Francesco. Si possono mandare agli arresti domiciliari condannati la cui detenzione si avvii verso la fine della pena, quelli che non siano portatori di allarme sociale, che abbiano tenuto buone condotte e che non abbiano commesso reati particolarmente gravi.

Alcuni primi provvedimenti sono stati adottati nelle settimane scorse, Quasi 4000 detenuti sono usciti con il braccialetto per effetto della “vecchia” legge Alfano, grazie ad una saggia elasticità dei magistrati di sorveglianza. Poi ne sono usciti diverse centinaia che stavano in semilibertà. Quelli usciti per effetto del decreto saranno al massimo un migliaio. E questo non a causa dei braccialetti, che non ci sono!. È stato un primo passo, ma insuffdiciente: occorrono più determinazione e più coraggio. Nel confronto che si apre questa settimana al Senato per completare e rendere più efficaci i provvedimenti contro la minaccia del coronavirus nelle carceri italiane il Pd sarà in prima fila.

* Walter Verini è responsabile del Partito Democratico per le questioni della Giustizia