Jobs act bocciato
in Europa: per chi
suona l’articolo 18

La lunga marcia della Cgil, intrapresa sul finire del 2015 con l’obiettivo di delineare una proposta alternativa di politica del diritto e di politica giudiziaria nel contrasto alle nequizie del Jobs act di renziana memoria, si arricchisce di un nuovo importantissimo riconoscimento sovranazionale.

Dopo la redazione e la presentazione in Parlamento della Carta dei diritti universali del lavoro, la proposizione a suo sostegno di tre referendum sociali, la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 e le numerose questioni ancora pendenti presso la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia UE, questa volta a pronunciarsi è – per la prima volta – il livello europeo: a seguito del Reclamo collettivo n. 158 del 2017 presentato dalla Confederazione, con il sostegno della CES (Confederazione europea dei sindacati), il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa ha riconosciuto che l’Italia viola il diritto dei lavoratori licenziati senza valido motivo “a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione” come previsto dall’art. 24 della Carta Sociale Europea.

Il Comitato di Strasburgo ha accolto tutte le contestazioni espresse nel Reclamo della Cgil, riconoscendo che il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo di cui al decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (il sistema delle cosiddette «tutele crescenti» del Jobs Act) – applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 – non rispetta gli standard deducibili dall’art. 24 della Carta sociale, in quanto prevede limiti rigidi all’importo dell’indennizzo da corrispondere al lavoratore (6 mesi di retribuzione per i dipendenti di piccole imprese, 36 per le medio-grandi).

Vittoria dei lavoratori

Il riconoscimento di queste violazioni costituisce non solo una vittoria per i lavoratori e le lavoratrici italiani ed europei, ma anche una smentita dell’ottica che ha guidato il legislatore del 2015 nel riformare la materia: quella di dare più certezza alle imprese quanto ai costi del licenziamento.

Il Comitato europeo dei diritti sociali ha deciso il Reclamo collettivo riconoscendo la violazione dell’art. 24 della Carta Sociale (trattato internazionale che, insieme alla Convenzione Europea dei Diritti Umani, completa il sistema di riconoscimento e di garanzia dei diritti umani fondamentali, rispetto ai quali l’Italia è tenuta a titolo dell’art. 117, comma 1, della Costituzione). L’art. 24 sancisce il diritto di ogni lavoratore ingiustamente licenziato di ricevere una tutela effettiva e realmente dissuasiva nei confronti di comportamenti arbitrari del datore. Vale a dire che al lavoratore deve essere garantita la reintegrazione nel posto di lavoro oppure, se questa non è concretamente praticabile, un risarcimento commisurato al danno subito, senza “tetti” di legge che limitino il potere del giudice nel quantificarlo.

La Cgil, nel suo reclamo collettivo, ha chiesto al Comitato di statuire che le disposizioni contenute negli art. 3, 4, 9 e 10 del decreto legislativo n. 23 del 2015 sono contrarie all’art. 24 della Carta sociale in quanto prevedono, in caso di licenziamento illegittimo nel settore privato di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, un’indennità risarcitoria da corrispondere a questi ultimi il cui ammontare è limitato da un tetto massimo rigido: 36 mesi di retribuzione per i dipendenti di imprese medio-grandi; 6 mesi per quelli delle piccole imprese (cioè quasi la metà del totale della forza lavoro italiana). Ciò impedisce al giudice ogni possibilità di valutare e di riconoscere l’eventuale danno supplementare subito dal lavoratore a seguito del licenziamento.

Valutazione negativa

Il Comitato ha riconosciuto che il sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo configurato dal decreto legislativo n. 23/2015 (art. 3), anche dopo le modifiche apportate nel 2018 dal doppio intervento del legislatore (il “decreto dignità”) e della Corte costituzionale italiana (sentenza n. 194 del 2018, su ricorso della Cgil), resta privo dei requisiti di effettività (rispetto al ristoro dei danni subiti dal lavoratore) e deterrenza (rispetto al comportamento illegittimo del datore) richiesti dall’art. 24 della Carta sociale. Infatti la legislazione italiana vigente esclude a priori la possibilità di essere reintegrati nella maggior parte dei casi di licenziamento (fatte salve alcune rarissime eccezioni) e fissa l’importo massimo dell’indennizzo erogabile al lavoratore.

Rilevante, nella valutazione negativa della legislazione italiana, è stato anche il ruolo del meccanismo di conciliazione introdotto dall’art. 6 del decreto legislativo n. 23/2015 nel ridurre ulteriormente la possibilità del lavoratore di ottenere un indennizzo adeguato. La norma, infatti, garantisce al datore di lavoro di evitare il giudizio offrendo al lavoratore una somma pari a una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, esentata da oneri fiscali e contributivi; una somma che di norma il lavoratore è indotto ad accettare perché verosimilmente non di molto inferiore a quella che può sperare di ottenere dal giudice. Ciò – secondo il Comitato – riduce ulteriormente sia l’effetto di deterrenza del regime sanzionatorio per il datore, sia l’adeguatezza dell’indennizzo per il lavoratore.

Radicali contestazioni

La decisione del Comitato europeo dei diritti sociali conferma quindi, ulteriormente, la correttezza e la bontà delle radicali contestazioni della Cgil nei confronti di quello che è il simbolo dell’approccio neoliberista nelle politiche del lavoro, ossia il sistema risarcitorio congegnato dal governo Renzi per smontare l’intero sistema di tutele sul lavoro attraverso l’eliminazione della tutela reintegratoria dell’articolo 18 e la sua sostituzione con un meccanismo di indennizzo predeterminabile dal datore di lavoro, in omaggio ai dettami della “law and economics”.

Da Strasburgo, quindi, risuona un chiaro e netto campanello d’allarme per l’attuale Governo “giallo-rosso” affinché, senza indugio, si ponga mano ad una netta inversione di tendenza rispetto alla disastrosa direzione impressa alle politiche del lavoro da legislatori e esecutivi che, negli ultimi anni, sembrano aver smarrito l’ordine di priorità che la nostra Costituzione scolpisce a chiare lettere.

* Lorenzo Fassina è responsabile dell’Ufficio giuridico e vertenze legali della Cgil nazionale)