Il “Citizen K” all’ombra di Putin
e quei miei lontani viaggi a Mosca
Per parlare di “Citizen K” di Alex Gibney, forse il miglior film – sicuramente il più importante assieme a “J’accuse” di Polanski – della Mostra di Venezia, non posso non partire da alcuni dati personali.
I miei viaggi russi tra Michalkov e Tarkovskij
Sono stato per la prima volta in URSS nell’estate del 1978. Avevo vent’anni. Frequentavo un corso estivo dell’associazione Italia-URSS per studenti che tentavano faticosamente di imparare la meravigliosa lingua di Tolstoj. Ci sono tornato regolarmente, dagli anni ’80 in poi, per seguire per “l’Unità” il festival del cinema di Mosca. Ho conosciuto praticamente tutti i grandi registi sovietici ancora attivi e viventi, da Nikita Michalkov a suo fratello Andrej (Končalovskij), da Marlen Chutziev a Elem Klimov, da Vadim Adbrašitov a Sergej Bodrov (che è diventato un amico: non a caso conoscevo bene anche suo figlio Sergej jr., e la notizia della sua morte prematura fu un grande dolore). Andrej Tarkovskij l’avevo conosciuto, invece, in Italia, ai tempi di “Nostalghia” (qui a Venezia c’è anche un documentario su di lui, fatto da suo figlio Andrej Andreevič: “Andrej Tarkovskij: A Cinema Prayer”, molto bello).
Sono stato in Russia l’ultima volta nell’estate del 1993: l’ultimo festival di Mosca che ho seguito. Il cinema russo, come la società di quel paese, stava cambiando. Nascevano nuove figure professionali per definire le quali, non esistendo nel cinema sovietico la parola adatta, era stato adottato un termine straniero: chiamavano se stessi “продюсер”, ovvero “prodjuser”, che è la traslitterazione in russo della parola inglese “producer”, produttore (i russi traslitteranno dall’alfabeto latino al cirillico in base alla pronuncia, non alla grafia). Incontrandone uno (ero lì anche per cercare film per la Mostra di Venezia) salii a bordo della sua macchina con autista e vidi, per la prima volta in vita mia, un telefono satellitare montato sul cruscotto: era grosso, luminoso e rumoroso come una discoteca. Il cinema è sempre un ottimo binocolo per osservare il mondo: e quel giorno capii che il mondo, quel mondo, non sarebbe più stato lo stesso.
Il colpo di Eltsin e la fine di Gorbaciov
Tutto questo per dire che mi si può difficilmente accusare di essere anti-sovietico né filo-sovietico, anti-russo né filo-russo. Ho assistito all’esplosione della perestrojka e all’esaltazione per la glaznost, negli stessi tempi in cui sull’”Unità” ne scriveva con entusiasmo l’allora corrispondente da Mosca Giulietto Chiesa; ho assistito anche alla fine di Gorbaciov e all’ascesa al potere di un populista assai meno democratico di lui, Boris Eltsin, illudendomi che i due potessero mettersi d’accordo per portare la Russia fuori dal baratro.
E nel ’93 ho visto in sedicesimo l’arrivo degli oligarchi, di una classe di “nuovi ricchi” molto particolari perché venivano, tutti, dalla vecchia URSS: era gente cresciuta dentro il PCUS e dentro la società che il PCUS aveva plasmato, psicologicamente prima ancora che politicamente. Erano audaci, feroci, assetati di denaro ma soprattutto di potere, e ostentavano i segni del potere sfoggiando macchine sportive e fidanzate hollywoodiane. Nel contempo, ho visto anche emergere – e ne leggevo dall’Italia – una “nuova” classe politica che anch’essa veniva ovviamente dal PCUS e che, con quegli stessi oligarchi post-comunisti, cominciava a fare affari. Ricordo benissimo che un politico che, dall’Occidente, sembrava interessante era il sindaco di Leningrado, poi San Pietroburgo: Anatolij Sobčak. Qualche anno più tardi avremmo scoperto che uno dei “delfini” di Sobčak era un giovane ex funzionario del KGB di nome Vladimir Putin.
Ci siamo arrivati. “Citizen K” è un film su Michail Chodorkovskij (è lui, basandosi sulla trascrizione anglosassone, il cittadino K del titolo: con ovvia allusione al “Citizen Kane” di Orson Welles) ma è anche un film su Vladimir Putin. Perché Chodorkovskij è uno degli oligarchi che si sono immensamente arricchiti dopo il crollo dell’URSS: nella spartizione delle ricchezze a lui toccò il petrolio siberiano, e nel 2003 (a 40 anni) aveva un patrimonio stimato di 15 miliardi di dollari. Ma è anche uno degli oligarchi che, quando Putin ha voluto rimettere le mani sui gioielli della corona e ha sostanzialmente riportato la Russia a essere un paese totalmente centralizzato come l’URSS, si è violentemente scontrato con lui. Il 25 ottobre del 2003 è stato arrestato per frode fiscale.
Notate l’ironia delle date: il 25 ottobre, nel vecchio calendario russo, è il giorno della Rivoluzione (che poi, quando la Russia sovietica adottò il calendario mondiale, divenne il 7 novembre). Si è fatto dieci anni di galera, è stato amnistiato, è emigrato prima in Germania poi in Gran Bretagna. È lì che l’ha incontrato Alex Gibney, uno dei più grandi cineasti americani viventi.
Gibney, un Moore cento volte più serio
Gibney è autore di alcuni fra i più vibranti documentari d’attualità del cinema contemporaneo. È un Michael Moore cento volte più serio, che non si mette in mostra ma fa parlare i fatti. “Mea maxima culpa” (sulla pedofilia nel clero americano), “The Armstrong Lie” (sul famoso ciclista dopato), “We Steal Secrets” (su wikileaks), “Going Clear” (su Scientology) sono alcuni dei suoi capolavori.
Partendo da circa 12 ore di interviste con Chodorkovksij realizzate a Londra, Gibney è andato in Russia e ha filmato di tutto, arrivando fino alle regioni siberiane dove il magnate aveva prima il suo impero petrolifero, e dove poi ha scontato i 10 anni di carcere. Poi è tornato e ha fatto altre 12 ore di intervista. Il risultato è un film di due ore, con straordinari filmati di repertorio, che è un illuminante viaggio su un paese che ha fatto il doppio salto mortale: prima ha cancellato il comunismo diventando un paese capitalista, poi ha eliminato quasi tutti i capitalisti più miliardari per rimanere, sì, ricco (per chi è ricco) ma ritornando ai tempi dell’URSS per quanto riguarda l’attività politica, i diritti civili, l’accesso al potere, il controllo dei media, in una parola: la libertà.
Per me, non posso negarlo, la parte più emozionante del film è la prima, sull’infanzia dell’oligarca: nato nel 1963, figlio di un ingegnere ebreo e di una ingegnera ortodossa, cresciuto in una famiglia di rigorosa osservanza comunista con pochissimi mezzi (perché mica erano ricchi, gli ingegneri, in URSS), militante del Komsomol (l’organizzazione giovanile del PCUS). Insomma, una vera “infanzia sovietica”. Aveva 15 anni quando, nel ’78, andai per la prima volta in quel paese. L’avessi incontrato, ben difficilmente avrei potuto indovinare il suo futuro.
Ieri Chodorkovskij era a Venezia con Gibney. È un uomo misterioso, per certi versi inquietante. Giura che la prigione l’ha cambiato, e del resto chi non cambierebbe dopo 10 anni in Siberia? Pensate a cosa scriveva Dostoevskij PRIMA e DOPO la Siberia! Sia chiaro, Chodorkovskij non è Dostoevskij, è un signore che continua ad essere ricchissimo ma Gibney, dopo averlo intervistato e frequentato, si dice (abbastanza) convinto che le sue parole sulla libertà e sul rispetto dei diritti umani siano sincere.
Ma certo quegli occhi sono strani: sono visibilmente intelligenti, ma non buoni (anche se sono aperti e ti guardano dritto in faccia, non sono due fessure come quelli di Putin). È chiaramente guidato da una fortissima rabbia nei confronti di Putin e fossimo nei panni del nuovo Zar non ci fideremmo a incontrarlo a quattr’occhi. Ma è assolutamente credibile quando dice, come ha fatto ieri: “La Russia di oggi non solo è ancora uno stato autoritario, ma è uno stato del quale si è impossessata la mafia. Non so quanto in Occidente vi siano chiari i legami finanziari tra la Russia e l’Occidente, in particolare la compravendita di politici occidentali come il vostro ex premier Matteo Salvini, che è veramente troppo vicino al Kremlino per essere credibile”. L’ha definito premier, non vice-premier: ma che sia oggi un “ex”, non gli è sfuggito.
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