Il cellulare come una telecamera
la nuova era dei media inizia ad Atocha
L’11 settembre 2001 può considerarsi l’ultimo evento del Novecento, l’ultimo rappresentato prevalentemente da dispositivi analogici e da operatori professionali; la rappresentazione dei drammatici attentati risulta, ai nostri occhi contemporanei abituati a mille scatti e mille video, straordinariamente scarna. La mostra Here is New York. A Democracy of Photographs, giunta in Europa con i Rencontres d’Arles del 2002, che aveva chiamato a raccolta tutte le immagini (professionali e amatoriali) dell’evento, ne raccolse solo 2.744, di cui 1.500 furono esposte. I telefoni cellulari erano ancora privi di tele-fotocamera, i primi dovevano essere lanciati per i regali di Natale di quell’anno. Oggi qualunque sagra rionale di un paese sperduto avrebbe una rappresentazione più consistente.
Tre anni dopo, al mattino dell’11 marzo 2004, una catena di attentati sconvolse la stazione ferroviaria di Atocha nel centro di Madrid e varie altre. La Spagna e il mondo furono sommersi da migliaia di foto scattate dai telefoni cellulari dei passeggeri. A tre giorni dalle elezioni politiche, quelle immagini e quei telefoni cellulari furono usati per il passaparola che convocò una grande manifestazione di piazza contro il governo Aznar – grande favorito nelle elezioni – che aveva incolpato degli attentati i baschi dell’ETA, piuttosto che i terroristi di Al Qaeda. Aznar perse le elezioni. Non c’erano ancora i social; Myspace, l’antenato di Facebook, era stato inventato l’anno prima e fuori dagli Stati Uniti nessuno lo conosceva. FB era nato da venti giorni e Twitter non esisteva. Eppure in quel breve periodo di tre anni, 2001-2004, non soltanto si era enormemente ampliata la possibilità per le persone comuni di catturare immagini con uno strumento portatile di uso quotidiano, ma c’era anche la possibilità di una delivery, ossia di spedire quelle foto a possibili destinatari, anche multipli, e di usarle insieme ai messaggi di testo per convocare in 48 ore un imponente corteo a Madrid e capovolgere l’esito delle elezioni. Internet infatti stava ormai raggiungendo una dimensione ubiqua e mobile. I social network non esistevano, ma questo è forse il primo evento social che appartiene al nostro ventunesimo secolo.
Cosa era successo? Negli ultimi due decenni del Novecento tutti i media si erano avvicinati alla digitalizzazione, che permetteva di realizzare significativi risparmi nella lavorazione e migliori risultati. Il cinema aveva adottato tecnologie digitali soprattutto nella post-produzione. La saga di Star Wars inizia nel 1977. Gradatamente il digitale invaderà la produzione, e infine la distribuzione. Anche la tv segue la strada del cinema, a rispettosa distanza: prima la post produzione, poi la produzione, infine la distribuzione, che è sempre l’ultima perché quasi sempre richiede allo spettatore-fruitore-cliente di dotarsi di nuovi apparecchi e nuove abilità, e dunque va amministrata con tatto e gradualità.
La fotografia digitale comincia negli anni Ottanta, ben prima di sbarcare sui cellulari presto diventati smartphone. La musica digitalizza la discografia e la sua distribuzione. Giornali e libri adottano tecnologie digitali “a freddo” per la stampa, che si svolge ormai anche in stabilimenti molto lontani dalla redazione grazie alla teletrasmissione.
Naturalmente in ciascuno di questi ambiti il passaggio al digitale è stato accompagnato da furiose discussioni, tra nostalgici dell’antica qualità e fautori dell’innovazione, anche a costo di tagliare i posti di lavoro e intere professioni. Qui però interessa notare piuttosto che la digitalizzazione aveva una conseguenza imprevista: nel Novecento ciascun medium aveva una propria tecnologia, accessibile solo agli addetti ai lavori del suo settore (tipografi, operatori cinematografici, fotografi professionali, produttori, programmisti, a seconda dei casi), e i transiti dall’uno all’altro medium erano complessi sia dal punto di vista espressivo-artistico che tecnico, e dunque attentamente sorvegliati.
Adesso invece tutti i testi (il film, il giornale, il programma televisivo, il brano musicale etc.) sono fatti della stessa materia immateriale, sono tutti fatti di bit, e saltano con grande facilità da un medium all’altro, con continue modifiche, aggiornamenti, versioni. Qualunque computer – una macchina universale – può leggerli o, come si dice, “eseguirli”. Contemporaneamente si sviluppa Internet nella sua versione civile. Ricordo bene una lezione nell’aula Della Porta di Madonna dei Monti, con quelle belle tele dipinte sul soffitto adesso finite chissà dove, nella quale – docente a contratto in appoggio al caro Ivano Cipriani – tenni la prima lezione su Internet. Era il 1995. Non sentendomi sicuro dell’argomento avevo chiesto di intervenire ad un ricercatore di matematica della Sapienza mio amico, Marco Isopi. Purtroppo nel tragitto verso l’università la sua vecchia Skoda si incendiò sulla Tangenziale e il soccorso matematico non arrivò mai: dovetti arrangiarmi da solo, non so con quanta efficacia.
Internet trasformava il computer nel terminale di una rete diffusa in tutto il mondo. Una rete velocissima, in tempo quasi reale, con un software gratuito. Tim Barners Lee, l’inventore del www, lavorava al CERN di Ginevra, proprio accanto al tunnel dei neutrini (Maria Stella Gelmini, settembre 2011) e i risultati della sua ricerca sono stati aperti a tutta la comunità scientifica, come è proprio di una istituzione pubblica europea. Bill Gates, ma probabilmente anche Steve Jobs o Jeff Bezos, non ci avrebbero trattato così bene.
Sulla rete Internet tutti i contenuti dei media circolano senza sosta; ma accanto ad essi viaggiano quelli che sono prodotti facilmente non più soltanto dai professionisti dei media, ma da chiunque. “Produrre” qui significa sempre più “copiare con modifiche” o anche senza modifiche, magari. I social organizzano lo scambio e la visibilità di questi contenuti e dei soggetti che li “postano”, rendendoli pubblici e universalmente accessibili. La sfera pubblica habermasiana si duplica: c’è una sfera mediale e una social, che si intersecano e si sovrappongono. Una persona qualunque crea e posta sui social un video. Se incontra il favore dei suoi vari follower, e diventa “virale”, i media lo riprendono, e dai media qualcuno lo riposta, magari con modifiche e commenti, sulla sua pagina di un social. Un continuo rimbalzo e rimpallo. Le possibilità di espressione e di comunicazione delle persone qualunque crescono in modo esponenziale.
Accanto ai media presidiati dai professionisti, i social sono animati da persone che possono non avere una etica e una responsabilità adeguata, ma la diffusione planetaria e la numerosità dei protagonisti rendono assai difficile una disciplina, che non sia la censura propria dei regimi totalitari. In questa “terra di mezzo” si generano anche forme di intolleranza, replicazioni abusive, fake news, turbative a mezzo trolls (soggetti robotizzati).
2/SEGUE
(Il testo che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore è la seconda parte della Lectio magistralis tenuta da Enrico Menduni all’Università di Roma Tre, a conclusione della sua carriera universitaria, dal titolo “Televisione del XXI secolo. Continuità e fratture in una nuova – e digitale – cultura visuale”).
Prima parte
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