Il caso Umbria insegna:
al Pd non basta
il “campo largo”
E ora cosa succederà? Le dimissioni – diventate inevitabili davanti al moltiplicarsi di elementi d’accusa, di indiscrezioni, di intercettazione non sappiamo quanto legalmente diffuse – di Catiuscia Marini da presidente della Regione Umbria fanno definitivamente precipitare la crisi. Il rischio è che questo sia l’ostacolo sul quale si infrange, ancor prima di iniziare, il rinnovamento del Pd. Fino a ieri faceva impressione la fretta leghista di andare subito al voto nella certezza di poter cogliere il frutto della prima caduta di una “regione rossa”. Così come colpiva la cautela dei 5 Stelle che non hanno cavalcato l’inchiesta nella non esplicita consapevolezza che i voti allontanati dallo scandalo non andranno a loro.
Ma la questione vera è tutta centrata sul Pd e sul centrosinistra, perché, a un anno dal voto che riguarderà la gran parte delle Regioni tra cui la Toscana, il Piemonte le Marche, la Puglia, la Campania (l’Emilia Romagna, invece, andrà al voto a novembre) ovvero il piccolo tesoretto che il Pd ha ancora sui territori l’Umbria potrebbe essere il banco di prova di una reazione oppure l’annuncio di una sconfitta di dimensioni incognite. La questione vera resta nella domanda: che cosa può fare il Pd, oggi in Umbria e domani ovunque, per ricostruire un rapporto con i cittadini elettori, per avanzare proposte capaci di catalizzare un consenso che non è appartenenza (se puntiamo all’appartenenza come qualcuno crede sia possibile, al “popolo di sinistra” ci condanniamo ad una minorità inutile)? La risposta non è facile né scontata: finora Zingaretti si è mosso con l’idea di un allargamento del campo, di una cucitura dei diversi pezzi di cui nessuno conosce neppure il peso specifico. Lo ha fatto pensando alle elezioni europee e al meccanismo specifico di quella legge elettorale. Ma al di là dell’Europa non si capisce cosa tenga in piedi questo “campo largo”, per usare una espressione cara a Bettini prima ancora che a Zingaretti, se non la preoccupazione legittima per le spinte sovraniste, isolazioniste, opache nei confronti della democrazia.
Ma basta? Credo proprio di no: gli anni vissuti col collante dell’anti berlusconismo dovrebbero avercelo dimostrato. Eppure la frana umbra dovrebbe essere studiata con cura. Perché lo scandalo delle raccomandazioni, l’arresto del segretario regionale, l’inchiesta che investe e spinge alle dimissioni la presidente non sono fulmini a ciel sereno. Certo fino a l’altro ieri i fulmini erano stati politici ed elettorali e non avevano investito il terreno giudiziario. Ma qui nel giro di qualche anno Pd e il centrosinistra hanno perso i comuni di Perugia, Terni e molti altri centri importanti, qui un anno fa il centrosinistra era arrivato terzo: al centrodestra (con la Lega già allora al 20%) era andato oltre il 36,8% dei voti, ai grillini il 27,5 un risultato migliore di quello conseguito dall’intera coalizione di centrosinistra. E quattro anni fa, in un momento in cui il centrosinistra aveva un risultato straordinario, la presidente Catiuscia Marini aveva battuto solo di due punti e mezzo il contendente della destra fermandosi al 42,5% dei voti. Allora quella vittoria era un segnale di stanchezza (nelle precedenti prove il voto dei candidati di sinistra era tra il 55 e il 63%), aveva fatto emergere due partiti al 14% ciascuno (la Lega e i 5 Stelle) che avevano giocato la loro campagna elettorale sulla contestazione del “sistema” Umbria. Quella erosione (e la crisi manifestatasi in pieno solo un anno fa col voto politico) come era stata affrontata? Dov’era stato il cambiamento, le facce nuove, le idee nuove? E qui le semplificazioni nazionali non reggono, qui il problema non si può certo ridurre a Renzi sì o Renzi no. Qui i due “partiti” storici (come li vogliamo chiamare, i diessini di rito strettamente dalemiano come la Marini e della precedente presidente Maria Rita Lorenzetti, i democristian-popolari di rito incerto, una volta con Franceschini e l’altra con Fioroni) dopo non poche liti si sono messi insieme saldando uno straordinario patto fatto di capibastone, presidenti delle Asl degli Ato, assessori intramontabili. Così – magistrati o non magistrati – tutto resta immobile e non si va da nessuna parte.
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