Il caso Saman,
le donne e l’Islam senza pregiudizi

Il caso della diciottenne pakistana Saman Abbas – pur in una cornice di indizi e testimonianze che fanno pensare al peggio e cioè che sia stata uccisa dallo zio, aiutato da due cugini, col pieno appoggio del padre Shabbar e della madre Nazia perché rifiutava un matrimonio combinato – è ancora aperto sotto il profilo investigativo. E ancora più aperto, spalancato sulle questioni cruciali che sottende, dai legami fra tradizione e Islam al ruolo e alla posizione della donna nei Paesi e nelle culture musulmane.

Sì, culture, sono più d’una e dovremmo iniziare a capirlo per non soggiacere a narrazioni truci, razziste, sterili o, per converso, a sottovalutazioni altrettanto inutili se non nocive. Sull’onda della drammatica vicenda di Saman, l’Ucoii, Unione delle comunità islamiche in Italia (la più grande associazione nel nostro paese) ha, tanto per fare un esempio, appena diffuso una fatwa, cioè un parere religioso, sulla illiceità dei matrimoni forzati nell’Islam, una “pratica tribale” dice l’Ucoii, senza alcuna giustificazione dottrinaria e contraria all’“ordinamento giuridico del nostro Paese”, un ennesimo chiarimento, quest’ultimo, che parla di non-separatezza, a differenza di quel che succede in Inghilterra presso molte organizzazioni islamiche, libere di coltivare visioni sociali arcaiche. Ma l’Islam italiano è plurale, tanto che altre realtà non hanno gradito la fatwa dell’Ucoii.

Un femminicidio, non c’entra la religione

Foto di Afshad Subair da Pixabay

Sono tanti gli Islam italiani e diversi gli approcci, le sensibilità. Ecco due voci di donne, una, la giornalista Karima Moual, è nata in Marocco e si è trasferita in Italia a undici anni per ricongiungersi coi genitori; l’altra, Nadia Bouzekri, anch’essa di origine marocchina, è nata in Italia ed è la prima donna a ricoprire la carica di vicepresidente dell’Ucoii. Nadia sulla vicenda Saman è netta: “Con Saman siamo nell’ambito del femminicidio. La religione non c’entra e nemmeno la cultura: in Pakistan i matrimoni forzati sono illegali, gli islamici sono vittime di stereotipi. E il velo non è obbligatorio, ma è una scelta personale. Chi vuole lo indossa, chi non vuole no”. Detto che anche la legge italiana vieta molte cose, tra cui le organizzazioni mafiose, che pure ci infettano da secoli, Il dubbio è che la cultura in generale, intesa come ambito sociale ed etico concresciuto nel tempo, non necessariamente quella islamica, invece conti eccome. Un’adolescente immigrata o figlia di immigrati dal Pakistan, dalla Tunisia, dal Marocco, avrà briglie più o meno sciolte a seconda della forma mentis della famiglia, della città o regione d’origine, dei legami con la famiglia allargata.

Karima Moual di storie drammatiche di ragazze in bilico tra cultura d’origine e secolarizzazione europea, alcune finite bene altre no, ne conosce e ne ha raccontate tante. Parla di “una struttura patriarcale” in cui si mescolano “tradizione, fede, cultura, interessi e territorio. Il legame con la famiglia è quasi un patto di sangue, che esige sottomissione” (e qui un pensierino alla ‘ndrangheta calabrese lo si potrebbe fare…) e poi nei matrimoni combinati conta anche l’interesse, il capofamiglia ribadisce l’inscalfibilità del suo onore e lo sposo individuato nel Paese d’origine può arrivare in Italia. Un fattore economico (strutturale) di rilievo. Ma l’arretratezza, l’attrito tra conservazione e modernizzazione, lo sradicamento della globalizzazione con l’annesso rinvigorimento reattivo dei fattori identitari spiega tutto?

La religione per facilitare la sottomissione

Foto di Thủy nguyễn Công da Pixabay

L’antropologia insegna che non tutte le culture tradizionali o primitive comportano la cosificazione o la subordinazione della donna. Contano sì le condizioni sociali, economiche, geografiche, storiche, ma la religione pesa altrettanto. E quella del Corano, libro sacro inviolabile intriso di prescrizioni per la vita giusta e tessuto di vagli accurati tra ciò che è puro (halal) e ciò che è impuro (haram), pesa in modo esplicito. Dice Karima: “Dietro alle unioni combinate c’è il divieto assoluto dei matrimoni tra donne musulmane e uomini non musulmani e la fobia che una figlia possa infrangere questo divieto”. La religione come enzima che facilita la sottomissione femminile o peggio? Sì, nell’Islam, ma anche nel recente passato della chiesa cattolica, in alcune confessioni cristiane, nell’ebraismo più ortodosso.

Il Corano è netto. La Sura 5 (“La tavola imbandita”, versetto 5), afferma che un uomo musulmano può sposare una “donna del Libro” (cioè cristiana o ebrea, ma nel mondo musulmano lei non potrà trasmettere ai figli la sua fede), mentre una musulmana non può sposare un “politeista” o un “miscredente” (Sura 2, “La giovenca”, versetto 221), categorie all’interno delle quali sono annoverati anche cristiani ed ebrei. A meno che cristiani ed ebrei siano disposti a sottoscrivere la “shahada”, cioè la dichiarazione di fede islamica. E si può andare oltre, perché sui matrimoni decisi dai padri non tutti i teologi islamici la vedono allo stesso modo.

L’imam arabo Ahmad, vissuto tra VIII e IX secolo, così scrive: “Una donna venne al Profeta e gli disse: ‘O Messaggero di Allah. Mio padre mi ha fatto sposare un suo nipote per rialzare con me il suo prestigio’. Il Profeta le offerse la libertà di decidere. Lei disse: ‘Accetto quello che mio padre ha fatto, ma tenevo a far sapere a tutte le donne che i padri non hanno nulla da decidere in questo’”. Poi, come spiega Karima Moual, la marcia verso pieni diritti delle donne nei Paesi islamici è lenta e difficile: “La battaglia per cancellare la legge che vieta alle donne musulmane di sposare non musulmani è stata vinta solo in Tunisia, nel 2019”.

L’apostasia è un tabù

L’apostasia è un tabù. Ma, sempre nel Libro dettato a Muhammad dall’arcangelo Gabriele, nella Sura 17 (“Il viaggio notturno”, versetto 31) sta scritto: “Non uccidete i vostri figli per timore della miseria: siamo Noi a provvederli di cibo, come [provvediamo] a voi stessi. Ucciderli è veramente un peccato gravissimo”. Insomma, coi delitti, con Saman e altre vittime del delirio tradizionale e patriarcale, l’Islam non c’entra proprio, alla lettera.

Aggiungiamo che Shabbar, il padre di Saman è un musulmano sui generis. Un negoziante indiano di Novellara, suo vicino, l’aveva visto nei giorni precedenti la scomparsa della figlia ed era ubriaco. Forse sulle prescrizioni religiose aveva prevalso l’angoscia per ciò che stava per accadere col suo forse tormentato consenso. Il giudice dell’indagine preliminare scrive che Shabbar avrebbe acconsentito all’omicidio a causa delle proprie “intime convinzioni etiche e religiose”. Per quanto si è detto prima e considerando che Saman era innamorata di un ragazzo pakistano e musulmano e quindi non violava il Corano, non si può essere totalmente d’accordo col gip.

Piuttosto è innegabile che Il mondo islamico a fatica si stia districando dal verso 34 della Sura 4 “Le donne”, che recita: “Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse”. Un versetto che ribadisce il precedente, numero 228 della Sura 2 “La giovenca”: le donne “hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini hanno maggior responsabilità (letteralmente: “sugli uomini c’è un grado maggiore)”.

La versione citata del Corano presente sul web è curata da un fior di studioso, Hamza Roberto Piccardo, traduttore del Libro sacro, uno dei fondatori dell’Ucoii, di cui è stato segretario generale. Non è di poco interesse il commento al versetto citato de ” La giovenca”, una esegesi che fa riflettere: “Questo versetto può dar luogo a equivoci, in quanto si ha l’impressione che sancisca una disparità tra i diritti degli uomini e delle donne. Tenendo conto che esso è inserito nel contesto di un discorso sui rapporti familiari, si deve interpretare questa superiorità maschile non in senso assoluto, ma relativo all’ambito domestico (…) per l’assunzione di alcuni compiti, mai da intendersi in ogni caso sul piano del valore intrinseco dell’essere femminile e maschile, e mai da espletarsi nel senso di un odioso dominio o di una cieca imposizione. Ben al contrario, l’autorità familiare deve esser basata su concertazione e rispetto reciproci”.

Uno sviluppo armonico delle differenze

Così continua il commento: “Le differenze fisiologiche e psicologiche tra l’essere maschile e quello femminile debbono, proprio nella realizzazione della loro diversità, creare uno sviluppo armonico familiare e sociale. La sensibilità maschile è per lo più esteriore, proiettata in un ambito extrafamiliare che tende a diventare pubblico e politico. Quella femminile è per lo più interiore, attenta a se stessa, tesa alla protezione di quanto acquisito o alla acquisizione di semplici mezzi di sostentamento e di sicurezza(…). L’abolizione completa della diversità dei ruoli, propugnata in ambito contemporaneo, è altrettanto ingiusta e contro natura che la fissità assoluta di questi. Essere diversi e complementari implica anche l’assunzione, da parte dell’uomo, di un ruolo di guida, che esercitato nel giusto senso, non svalorizza l’essere femminile, ma lo completa”.

E qui, nonostante la critica alla fissità dei ruoli, nasce l’inciampo, una sostanziale asseverazione degli stessi tra l’antimoderno e il maschilismo schietto, non più accettabile nelle società occidentali. Che poi la parità sia garantita, soprattutto in Italia, beh, questo è un altro discorso e ci impedisce di salire su qualsiasi pulpito. La via maestra e indispensabile nel nuovo composito mondo delle migrazioni e del meticciato globale ha pietre miliari che si chiamano dialogo, apertura, confronto a viso aperto, poca ipocrisia e attenzione al relativismo assoluto in campo etico e culturale, perché ci sono principi e valori su cui è bene mantenere sempre ferma la rotta.