I tre Moschettieri di Bourboulon, profumo d’avventura con interpreti de luxe
Non ditelo al ministro Lollobrigida, ha già così tanti grattacapi. Sotto la parvenza di un sapido, curato e spettacolare film di cappa e spada, “I tre moschettieri-D’Artagnan” di Martin Bourboulon è una subdola manovra francese a favore della sostituzione etnica. Manovra pure irrispettosa, sfiorante il sacrilegio, perché punta a minare le radici culturali, se non etniche, di una storia epica e strepitosamente avventurosa: tutto ci saremmo aspettati nella vita meno che vedere tra le fila dei Moschettieri di Luigi XIII (Louis Garrel) un nero, ma scuro proprio. Cosa mai ci azzecca in mezzo a un corpo d’élite nella Francia del Seicento questo Hannibal, interpretato dall’abbronzatissimo Ralph Amoussou? Ricerche storiche sostengono che in effetti un certo Louis Anniaba, uomo di colore, militò coi Moschettieri, ma ci sarà da fidarsi?
Il colossal d’Oltralpe mica si ferma qui, per il ruolo di Constance Bonacieux, guardarobiera-confidente di Anna D’Austria (Vicky Krieps), la consorte del sovrano, è stata scelta una giovane attrice senz’altro musulmana di origini algerine, Lyna Khoudri, volto dolce e occhi di cerbiatta e per questo ancor più pericolosa, nel film appare intima della regina, a lei devota, addirittura ammalia D’Artagnan (il baldo, accattivante François Civil), ragazzetto guascone arrivato a Parigi per entrare tra Moschettieri.
Non basta ancora. Dopo la Patria in mano a un nero e Dio scambiato con Allah, ecco la Famiglia sbeffeggiata dalle condotte allegre di Porthos (Pio Marmaï), che vediamo giacere a letto con una fanciulla e un giovanotto. Un moschettiere bisex. Del film, un colossal con budget di 72 milioni di euro, come oggi usa è stato già girato un seguito, “I tre Moschettieri-Milady” e il nome della fosca Lady de Winter (Eva Green) induce a ritenere che non sia deceduta alla fine del primo capitolo cinematografico, nonostante un volo in perfetto stile dalle scogliere di Dover. Sicuramente la rivedremo mentre continua a complottare e a spiare, ma a questo punto è legittima una domanda: non è che nel sequel Richelieu (Eric Ruf), tra un vulnus alla tradizione dumasiana e l’altro, si scoprirà transgender?
Dumas, un sanguemisto
Fuor di paradosso e sarcasmo (certi papaverucci di governo sovente se le tirano proprio), forse stupirà qualcuno l’albero genealogico di Alexandre Dumas. L’autore della trilogia composta da “I tre moschettieri”, “Vent’anni dopo” e “Il visconte di Bragelonne”, uscita a puntate sul Siècle a partire dal 1844, aveva un padre, omonimo e valente generale napoleonico, di pelle scura, nato a Santo Domingo dall’unione di Marie Cessette, una giovane schiava africana, col Marchese francese Davy de la Pailleterie. Lo scrittore era a sua volta un “sanguemisto”, frutto dell’amore tra il generale e la francese Marie-Louise Elisabeth Labouret, e ne era fiero, tanto da rispondere così a un impertinente interlocutore: “Sì mio padre era mulatto, mia nonna nera e la mia bisnonna scimmia. Come vedete il mio albero genealogico inizia dove finisce il vostro”.
Touché, avrebbe detto D’Artagnan, nel film presto impegnato, al fianco di Athos (Vincent Cassel), Porthos e Aramis (un Romain Duris con gli occhi truccati dal kajal: ahia, ci risiamo) in uno scontro, impari e però coronato da pieno successo, con venti guardie del cardinale Richelieu, primo ministro di Luigi XIII e fautore – siamo nel 1627 – di una sollecita guerra contro l’ultima roccaforte protestante a La Rochelle, ma soprattutto interessato a minare il potere di un sovrano senza eredi per aumentare proporzionalmente il suo. Un gioco grosso, la Francia sullo scacchiere europeo del bellicoso XVII secolo è una delle potenze dominanti. Realtà e romanzo, Dumas ha saputo dar vita a Moschettieri così eroici, così mitici, da farci dimenticare che un D’Artagnan nobilotto guascone è esistito davvero e che lo scrittore per dipingerlo ha saccheggiato una biografia d’epoca di quel cavaliere combattente. E gli storici hanno rinvenuto tracce probanti pure di un Sillégue d’Athos, di un Isaac de Portau e di un Henri d’Aramitz.
La corte è un verminaio di odi reciproci, brulica di orecchi indiscreti e malelingue, i probi Moschettieri del re comandati dal capitano di Tréville (Marc Barbé) sono una spina nel fianco del braccio armato di Richelieu, così Athos, protestante e fedele alla corona, viene incastrato da un’abile messinscena e fatto passare da assassino di una giovane donna con cui ha passato la notte. Lo aspetta la forca. La regina ha scelto insomma un pessimo momento per innamorarsi del duca di Buckingham (Jacob Fortune-Lloyd), protestante con ancora molti amici in Francia, nonostante i massacri e le persecuzioni anti-ugonotte. I due piccioncini s’incontrano in Normandia e il duca, respinto a malincuore da Anna d’Austria, le chiede almeno un pegno d’amore, ricevendo i celeberrimi puntali di diamanti. Glieli sottrae Milady, una Mata Hari seduttiva e malvagia, sono attesi da Richelieu che non vede l’ora di mettere in grave imbarazzo la regina e il re. Sospettoso, Luigi XIII chiede infatti espressamente alla consorte di indossare i puntali in occasione del matrimonio del principe suo fratello (Julien Frison), sponsali che risulteranno abbastanza movimentati. Seguono peripezie a pioggia, con D’Artagnan sugli scudi. Il finale propone un cliffhanger d’acciaio: Constance Bonacieux viene rapita e, per essere chiari con gli spettatori mentalmente meno vivaci, appare la scritta “continua”.
Due ore d’avventura
“I tre moschettieri-D’Artagnan” – lo distribuiscono Notorious Pictures e Medusa Film – profuma d’avventura senza un minimo cedimento per due ore buone, Bourboulon ci sa fare, l’ha dimostrato con “Papa ou maman”, blockbuster in Francia nel 2015, e qui ha ben sceneggiato prendendosi qualche ovvia libertà insieme a Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patelliére. Girato con luce tra il fioco e il naturale (la fotografia è di Nicolas Bolduc) dispiega boschi e campagne brumose e una Parigi livida, fangosa, brulicante di piccoli commerci e mentecatti. I fatti d’arme, egregiamente coreografati, si fanno apprezzare per il realismo della messinscena, le rade detonazioni di pistole e fucili scandiscono suggestivamente scontri furiosi dove urla, spade e pugnali ancora dominano. I costumi di Thierry Delettre meritano un plauso speciale, i moschettieri non indossano quella sorta di casula ecclesiastica con crociona sul davanti diventata proverbiale in mille film, hanno giubbe scure, cappellacci senza piumone di struzzo alla Wanda Osiris ma con piume di fagiano e niente stivali con riporto floscio.
Tutto meravigliosamente imperfetto, sudicio, crudele anche. Un drappello di interpreti de luxe fa il resto, magnetica Vicky Krieps, intenso l’Athos di Vincent Cassel, il più bravo della compagnia, Civil ha simpatia da vendere e un sorriso irresistibile. La Francia che, stranamente, non aveva mai onorato a dovere in sede cinematografica l’epopea dei suoi Moschettieri, si prende una robusta rivincita e a titillare ulteriormente l’orgoglio nazionale gallico è in arrivo a Cannes una “Jeanne du Barry” altrettanto colossal con Jonny Depp e Maïwenn Le Besco nel ruolo dell’amante di Luigi XVI (Maïwenn è un’icona pop francese ed ha origini bretoni, piccarde, vietnamite e algerine: caro Lollobrigida, non se ne esce).
A segnalare le decine e decine di film dedicati ai Moschettieri non si finirebbe più. Sorvolando sulle due recenti e fiacche uscite nostrane, “Moschettieri del re-La penultima missione” e relativo seguito con regia di Giovanni Veronesi e un poker d’attori (Favino, Mastandrea, Rubini, Papaleo) sulla carta invitante, la filmografia moschettiera mette in evidenza il muto “The Three Musketeers” del 1921, con Douglas Fairbanks, e nel ‘48 il primo film a colori della saga, un musical dal cast dovizioso, con Van Heflin, Lana Turner, Vincent Price e Gene Kelly atletico D’Artagnan. Cliccate su YouTube e godetevi il suo duello con Jussac, che sembra anticipare per filo e per segno la schermaglia tra Peter Pan e Capitan Uncino nel cartoon disneyano del ’53. Nel ’73 esce il brillante, impertinente “I tre moschettieri” dell’oggi novantunenne regista beatlesiano (“Help!, 1965, “Come ho vinto la guerra” nel 1967 con John Lennon) Richard Lester, altro cast fantasmagorico, con Oliver Reed, Michael York, Richard Chamberlain, Raquel Welch, Faye Dunaway etc etc.
Non c’è storia, per portare decentemente sullo schermo i romanzi di Dumas servono i soldi, tanti. Lo conferma “La maschera di ferro” (1998) tratto dal “Il visconte di Bragelonne” regista Randall Wallace, che arruola Leonardo Di Caprio, Gabriel Byrne-D’Artagnan, Jeremy Irons-Aramis, John Malkovich-Athos, Gérard Depardieu-Porthos. A parte D’Artagnan, gli altri moschettieri sono in pensione. Ma fino a un certo punto.
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