I renziani e la scissione:
ora almeno il coraggio
di farla alla luce del sole

Un tempo le scissioni erano una cosa seria. Quasi sempre drammatiche, feroci, con strascichi amari anche nei rapporti umani fra chi le consumava e chi le subiva. Quasi sempre sbagliate, nel senso che si facevano male tutti. La sinistra, in questo è maestra, è ormai un secolo che ci fa i conti. Ma quella che – stando a numerose ricostruzioni e alle stesse dichiarazioni ufficiali – si avvia a consumarsi nel Pd, appare alquanto surreale. Si lascia un partito che si è guidato perché nel nuovo governo non ci sono sottosegretari toscani? Perché nelle feste dell’Unità si canta bandiera rossa? Perché potrebbero tornare Bersani e D’Alema? (Strano modo di ragionare: chi torna ammette implicitamente l’errore di essersene andato).

Naturalmente le cose sono più complesse di quanto qualche maldestra argomentazione voglia far apparire. La scissione del partito renziano era nei progetti del leader e dei suoi fedelissimi sin dall’ultimo congresso del Pd, vinto nettamente – e con una partecipazione popolare ben superiore alle attese renziane – da Nicola Zingaretti su una linea profondamente diversa da quella del suo predecessore. Altrimenti perché lanciare subito i cosidetti comitati civici, fuori dal partito? Era un sospetto tutt’altro che gratuito, visto il ruolo che questi misteriosi comitati guidati dal più volte sottosegretario Scalfarotto svolgerebbero nell’organizzazione della nuova formazione politica.

La domanda obbligata, a questo punto, è: allora perché? Secondo molte interpretazioni ci sono motivazioni, per così dire, psicologiche: l’incapacità di Renzi di svolgere alcun altro ruolo – anche di primo piano – che non sia quello del leader. Ma sarebbe una spiegazione solo in parte comprensibile per chi è abituato a ragionare con le categorie della politica. Ed eccole, appunto, le ragioni politiche. Renzi e i suoi vedono un Pd spostato a sinistra, in conflitto con la propria natura più centrista, anche se questa collocazione viene aggirata con altre categorie più generiche e meno controverse: l’innovazione, la modernità, il mondo produttivo (come se il Pd di Zingaretti le escludesse dal suo orizzonte).

Il modello dichiarato è quello di Macron. Ma al di là del giudizio sulla politica del presidente francese e della sua En Marche, non poche differenze saltano agli occhi. Emmanuel Macron ha lasciato (e affondato) il Partito socialista, senza averne mai avuto la leadership e neppure un ruolo di primissimo piano. Renzi, invece, il Pd l’ha conquistato e ha esercitato la leadership fino alla rovinosa disfatta del 4 marzo di un anno fa. E comunque la salute del Pd – per quanto non solidissima – non è certo paragonabile allo stato comatoso del Ps di Hollande ai tempi dell’irruzione di Macron. I sondaggi, del resto, parlano chiaro: il partito di Renzi viene stimato al massimo all’otto per cento, la stessa percentuale inizialmente prevista per Leu, precipitata poi nelle urne appena sopra il tre per cento.

Paradossalmente la scissione si consuma – se si consumerà – proprio quando Renzi ha ottenuto il suo maggiore successo politico da quando non è segretario del Pd, spingendo il suo partito all’alleanza di governo con gli ex nemici (di Renzi innanzitutto) grillini. Ma a tutti i tentativi dell’attuale segretario di tenere unito il partito, il mondo renziano ha sempre risposto con un più uno: i canti di bandiera rossa alle feste dell’Unità…

Lo strappo finale dovrebbe consumarsi alla Leopolda. Non a caso la convention renziana è sempre stata un appuntamento estraneo – in qualche caso ostile – al partito, persino quando Matteo Renzi ne era alla guida, con referenti (Davide Serra, Briatore, per dirne qualcuno) lontani anni luce dalla storia della sinistra riformista. Ma non sarà una separazione consensuale, come sostiene uno dei fedelissimi di Renzi, l’ex capogruppo Rosato. Intanto perché le scissioni non sono mai amichevoli: basta andare a rileggersi le dichiarazioni dei renziani all’epoca della scissione, altrettanto ostile, di Bersani, Speranza, Grasso e D’Alema e della loro Leu. Ma quel che è peggio, nonostante gli sforzi verbali degli aspiranti scissionisti, è che un terremoto del genere rischierebbe di avere conseguenze incontrollabili sulla stessa compagine di governo, avvicinando di nuovo il pericolo che con la nascita del nuovo esecutivo si era sperato di superare: quello della destra estremista e xenofoba di Salvini.

Se deve essere scissione, comunque, almeno si faccia tutto alla luce del sole, evitando quelle furbizie di cui già si riempiono i retroscena giornalistici: ad esempio la scelta di lasciare nel Pd e nel suo ruolo di capogruppo al Senato il renzianissimo Andrea Marcucci. Stare fuori e continuare a condizionare il Pd: un vero capolavoro di etica politica. Come se Gramsci a Livorno avesse piazzato Togliatti come quinta colonna nel Partito socialista! Ma a parte l’accostamento blasfemo, è più che probabile che si tratti solo di cattiverie giornalistiche. Di veleni e tensioni, una scissione a sinistra, l’ennesima, se ne trascina già troppi per prendere in considerazione anche l’inverosimile.