Rai: en plein populista
La strada era spianata
E di nuovo. E sempre. E peggio, peggio, peggio. Le mani sulla Rai. Ma sì: quando Salvini dice “decideremo” non è un verbo buttato a caso. Decide il Governo, lo dice la legge. Lo dice la riforma Renzi…
Ci siamo stracciati le vesti inutilmente quando è venuta fuori quella brutta riforma, quella che doveva togliere le mani dei partiti dalla Rai e invece le spostava da quelle del Parlamento a quelle del Governo. Dicembre 2015, sotto Natale. Brutta sotto tutti i punti di vista, alla maniera di quel governo la legge approvata in Parlamento era solo una “traccia”, il resto decreti attuativi. Come per il Jobs Act.
Dai fronti oppostissimi del cda che ha pronte le valigie, le stesse parole, troppo tardi. “Rai, bottino di guerra”, dice Guelfo Guelfi, spindoctor di Matteo Renzi; “chiusa riserva di caccia per l’inquilino di Palazzo Chigi”, fa eco Arturo Diaconale, ala destra di Berlusconi.
In sintesi, il direttore generale è diventato plenipotenziario, amministratore delegato: lo indica il governo (il ministero dell’economia ha in mano il 100% delle azioni Rai), lo vota il cda. Il cda è smagrito, sette persone, 4 scelti da Camera e Senato, 2 dal Governo, uno dai dipendenti. Lì in mezzo c’è il presidente “di garanzia”.
Allora, quel lontano Natale di due anni e mezzo fa, la presidente Monica Maggioni era stata depotenziata in corso d’opera (eletta in agosto), con Antonio Campo Dall’Orto che, in epoca di transizione, è stato il primo amministratore delegato a fare e disfare. E a farsi dimettere: lo ha sfiduciato il cda (è nei suoi poteri), per il suo progetto sulle news, ma prima ancora lo aveva sfiduciato Renzi. Erano amici dalla Leopolda, poi il gelo, come hanno raccontato le cronache.
Dal giugno dell’anno scorso a dirigere la Rai c’è Mario Orfeo, quasi non ce se ne accorge. Aveva l’incarico di far passare tranquille le elezioni. Sono passate.
Adesso ci sono quei 236 curriculum arrivati a Montecitorio e a Palazzo Madama, tra cui i parlamentari dovrebbero spulciare per scegliere i loro quattro candidati al Cda. Salvini dice: “Non li ho ancora guardati”. In realtà non sono neanche stati mandati a lui, ha le mani libere nelle proposte.
Ma le indiscrezioni vanno avanti, molto avanti: c’è chi già indica un Tg2 quota Lega e un Tg3 Cinquestelle, come ai tempi del manuale Cencelli. C’è addirittura chi pronostica Pippo Baudo presidente, per l’antico debito di riconoscenza che Grillo ha nei suoi confronti: dopotutto lo aveva “scoperto” lui. E tanto il presidente ormai conta poco.
Le cose serie invece stanno nelle parole di Salvini, quelle dette qualche giorno fa a Lilli Gruber, a Otto e mezzo. Quando ha affermato, ad esempio, che “alcuni tg Rai sembrano quelli degli anni ‘20 e ’30” (“C’è un’opera di disinformazione a reti quasi unificate che non ha precedenti nella storia – ha detto Salvini – I partiti non resteranno fuori ma faremo delle scelte equilibrate e intelligenti, a differenza di chi ci ha preceduti verranno ricercati merito e competenza”).
E tutti a cercar di capire cosa voleva dire (il che ricorda un po’ il tormentone di quella brava coppia di comici, Corrado Nuzzo e Maria Di Biase, e il loro “cosa avrà voluto dire?” quando si capisce benissimo cosa si dice…). Dunque. La tv è nata nel ’54, il vicepremier nel ’73, con le date si confonde un po’. Prima-prima c’erano i radiogiornali dell’Eiar, se a questo – caso mai – alludeva. Ma di nuovo, nel ’20 la radio in Italia praticamente non esisteva. Nel ’30 sì: Mussolini ne aveva colto le grandi potenzialità, il suo maggior trionfo era stato il discorso sulla “Battaglia del grano” (10 ottobre 1926), con sei impianti in funzione a Roma, Milano, Napoli, Bologna, Genova, Torino, oltre 60mila abbonati, dieci ascoltatori per apparecchio radio. Può darsi comunque che di tutto ciò Salvini non ne sappia niente.
Quello che Salvini sa è il suo peso oggi, sono i sondaggi che gli fanno superare i Cinquestelle di zerovirgola, quanto basta per prendersi il bottino Rai. Anche se il presidente della Camera Fico conquista i titoli con il suo “la politica resti fuori dalla Rai”. Anche se i giornalisti Rai riuniti a congresso a Bologna in questi giorni chiedono una legge che liberi la tv pubblica dai partiti. E magari anche dal Governo.
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