I pochi contro i molti
nell’epoca
dei nuovi conflitti

Il XXI secolo si è aperto con una serie ininterrotta di manifestazioni popolari di scontento: i girotondi, i Vaffa Days, le primavere arabe, Occupy Wall Street, gli indignados, i forconi, i gilet gialli, le gioiose manifestazioni dei giovanissimi sul clima (meno antagoniste delle precedenti, ma le prime di portata realmente globale), le rivolte popolari in Cile, in Libano, in Iran ed altre che si aggiungono ormai quotidianamente. Eppure la parola “conflitto” è la cenerentola del linguaggio politico. Altri sono i termini usati per designare queste forme di azione collettiva: rabbia, odio, ribellione, sollevamento, rivolta.

Il conflitto è tradizionalmente associato a forme organizzate di contestazione che hanno una leadership nei partiti o nei sindacati e un andamento contrattuale, ovvero finalizzato a ottenere un risultato: prove di forza calcolate, che pongono il problema di fronte all’opinione pubblica, incaricano una rappresentanza di portarlo all’attenzione delle istituzioni, provocano rotture ricomponibili o con nuove elezioni, o con nuovi contratti di lavoro, oppure con la cancellazione o la riforma di determinate leggi. Il conflitto, nella società democratica di massa strutturata per partiti e sindacati, è come una strategia bellica che segnala all’avversario la forza potenziale di offesa o di resistenza, con l’intento di tenere aperta la possibilità di un accordo per ribilanciare le relazioni di potere tra due parti che, diversamente, sarebbero totalmente squilibrate e con scarsa, se non nulla, possibilità di dialogo.

Scriveva Robert Michels più di un secolo fa che l’organizzazione è l’unica arma che “i molti” hanno nella loro lotta contro “i pochi”. Il paradosso è che l’organizzazione è anche lo stratagemma attraverso il quale “i pochi” si appropriano della direzione delle masse, le quali hanno a questo punto due avversari: “i pochi” della parte avversa, contro la quale si organizzano; e “i pochi” dentro la loro stessa organizzazione, ovvero le élites che li dirigono sia assumendo la leadership del movimento sia educando le masse. Ebbene, il XXI secolo si è inaugurato all’insegna della rivolta contro “i pochi” di entrambe le categorie: i ricchi e i potenti (l’oligarchia) e i leader di partito e, più in generale, i partiti stessi (l’establishment). Le manifestazioni popolari di scontento sopra elencate sono tutte quante, benché per ragioni e con intenti diversi, forme di ribellione alla tradizionale funzione dirigente che “i pochi” hanno preteso e che per alcuni decenni sono riusciti a conquistare e mantenere con il consenso generale.

La defezione delle élites

Tuttavia, quelle manifestazioni segnalano anche un altro fatto, generalmente trascurato: la defezione delle élites socio-economiche e anche culturali dalla contribuzione progressiva (con l’ottenimento da parte dei governi democratici di politiche di alleggerimento fiscale) significa interruzione di quel legame conflittuale che – come abbiamo appena spiegato – siglava una forma di interazione con l’altra parte e, quindi, la condivisione di uno spazio contrattuale dove chi aveva più potere si esponeva al controllo efficace di chi ne aveva meno.

Nonostante ripetiamo senza troppo riflettere che “i molti” si contrappongono ai “pochi”, tendiamo a non vedere questo scenario dal punto di vista opposto: in realtà la contrapposizione oggi più radicale è quella dei “pochi” contro “i molti”, anche se questo aspetto non si manifesta con la stessa dirompente chiarezza, perché l’azione contrastante dei “pochi” opera generalmente in maniera indiretta e sottotraccia, e impiega la violenza solo in casi estremi (come i colpi di Stato).

La concentrazione del potere economico e finanziario può penetrare con estrema facilità le istituzioni che sono state originariamente pensate per consentire ai “molti” di avere il potere di influire sulle decisioni. Tutto sembra portare alla manomissione dell’eguaglianza di cittadinanza, l’ammissione che le diseguaglianze sociali si traducono in diseguaglianze di potere rappresentativo e politico. La contrapposizione è in effetti quella dei “pochi” che usano i «dogmi di un’economia che incoraggia e invita a un consumo irragionevole; inventano alternative alle diseguaglianze sociali, razziali e di genere che troppo spesso vengono considerate parametri insuperabili; [istigano] i seminatori di odio e paura che vogliono fratturare la nostra società». Quindi alla consueta formula i molti contro i pochi, rappresentata con facilità dalle immagini ormai quotidiane di ribellioni, propongo di affiancare quella meno consueta dei pochi contro i molti.

 

 

Questo brano è tratto dal libro

Nadia Urbinati

Pochi contro molti

Il conflitto politico nel XXI secolo”

 Editori Laterza