I nostri piedi a papera
e la camminata perfetta degli immigrati

Avete notato quante persone camminano con i piedi all’infuori, “a papera”?

Quindici anni fa passeggiavo sulla Rambla di Barcellona con un collega nordamericano; fra gli artisti di strada che si esibiscono lì a tutte le ore ce n’era uno travestito come il cantante di jazz del film omonimo (il primo con dialoghi sonorizzati, del 1927) e con la faccia dipinta di nero. Il collega mi disse: “Questo negli Stati Uniti provocherebbe una rivolta.” Ormai da decenni il cantante bianco che si esibisce blackface è un simbolo offensivo della segregazione, socialmente e culturalmente inaccettabile. Ma non era stato così per almeno un secolo: al giovane Frank Sinatra degli esordi era capitato di esibirsi blackface, e quel travestimento aveva consolidato una decina di anni prima la fama di Al Jolson, l’attore ebreo di vaudeville protagonista di The Jazz Singer. Tutto era nato nella prima metà dell’Ottocento, con il minstrel show, uno spettacolo di varietà davvero bizzarro, nel quale attori e musicisti bianchi, travestiti da afroamericani con gli abiti della festa, cantavano canzonacce nelle quali si parodiavano i comportamenti dei neri. A un certo punto era diventato popolarissimo in quel circuito un autore di canzoni, Stephen Foster, che aveva saputo piegare la volgarità offensiva delle origini verso un tono bonario e paternalistico, più gradito alla corrente politica degli abolizionisti del Nord (alla quale lo stesso Foster apparteneva). Tutti sappiamo fischiettare “Oh, Susanna” e riconosciamo una manciata di altre canzoni di Foster, fra le decine che hanno costituito il primo canzoniere popular degli USA, citate migliaia di volte nelle colonne sonore dei film. Foster morì nel 1864, durante la Guerra Civile; una decina di anni dopo cominciò ad apparire negli spettacoli dei minstrels una passerella, dove gli attori travestiti sfilavano in coppia, accompagnati da una musica sincopata. Era il cakewalk. La storia di quella passerella, che poi divenne un ballo e una musica, non è meno bizzarra dello spettacolo in cui venne inserita. Secondo testimonianze raccolte all’inizio del Novecento, e riferite a mezzo secolo prima, gli schiavi delle piantagioni, nei giorni di festa, si intrattenevano con giochi e danze di vario tipo. Quelli che servivano nelle case dei proprietari terrieri avevano avuto occasione di vedere le danze di origine europea che si svolgevano durante i ricevimenti, ed ebbero l’idea di parodiare i gesti formali e i movimenti rigidi dei loro padroni. Bisogna dire che quei padroni (almeno una parte di loro) dovevano la loro ricchezza alle terre rubate ai nativi americani e lavorate dagli schiavi neri: da bravi nuovi ricchi ostentavano una fierezza e una nobiltà che probabilmente non avevano mai conosciuto prima di emigrare in America, quindi possiamo immaginare che calcassero anche la mano. Ai loro servi afroamericani quella rigidezza ostentata doveva sembrare, fra l’altro, molto buffa. Una volta o l’altra qualcuno propose di dare un premio a chi imitava più efficacemente quelle promenades, e il premio era una torta. Era nata “la camminata della torta”, il cake walk, o cakewalk. Pare che alcuni dei padroni avessero anche spiato quella cerimonia, e l’avessero trovata “carina”, senza rendersi conto che era una presa in giro. Così a qualche impresario passò per la testa di introdurre il cakewalk nel minstrel show, aggiungendo un ulteriore grado di bizzarria: dei bianchi travestiti da neri che imitano dei neri travestiti da bianchi, che a loro volta imitano dei bianchi travestiti da aristocratici, in un minuetto grottesco. Quei passi strascicati erano potenziati da un accompagnamento sincopato, e verso la fine dell’Ottocento il cakewalk divenne oltre che un ballo di sala anche un genere musicale, che all’inizio del Novecento arrivò in Europa (Debussy compose un pezzo per pianoforte, nella sua raccolta Children’s Corner). Gli storici della musica, poi, ci raccontano che quella musica a un certo punto cominciò a essere chiamata ragtime, e più avanti jazz.

Ma cosa c’entra tutto questo coi piedi a papera? Giorni fa ero a Barcellona, e mentre ripensavo a quell’episodio del cantante blackface ho cominciato a guardare come camminavano le persone davanti a me, o quelle che mi venivano incontro: una grande folla di gente di tutte le provenienze. Sbalordito, ho notato che quasi la metà teneva i piedi in fuori, a papera. Non potevo crederci, avevo il dubbio di essere incappato in una di quelle fluttuazioni statistiche rese possibili dalla ristrettezza del campione. Ma poi, col passare dei minuti, dei quarti d’ora, delle mezz’ore, ho dovuto arrendermi, e ho anche iniziato a cercare qualche correlazione, qualche causa: niente da fare, qualunque tipo di scarpe indossassero, qualunque fosse l’età, il genere, la provenienza presunta, quasi la metà camminava coi piedi in fuori. Naturalmente mi sono scrutato anch’io, non si sa mai. Tornato a casa ho cercato informazioni e ne ho trovate abbondanti: quella è un’andatura innaturale, scorretta, che comporta problemi di postura (causa o effetto di quella camminata) abbastanza seri. Mi sono domandato come mai se ne parlasse così poco, e se le persone affette dai piedi a papera se ne rendessero conto, e, chissà, quale fosse il loro atteggiamento nei confronti di altre persone affette da problemi di postura e di deambulazione meno diffusi, e quindi meno invisibili.

Poi, verso sera, ho visto un gruppo di immigrati africani che lasciavano la Rambla, con i loro sacchi pieni di merci per turisti, in vista di una notte in qualche dormitorio della periferia. Che camminata perfetta.