I no di Merkel a Trump
e si profila uno scontro
sulla Tobin Tax
Non vengo alla riunione del G7. Non voglio che il G7 si ritrasformi in G8 ricoinvolgendo Putin. Il boicottaggio dell’OMS è una masochistica stupidaggine. Con la Cina e le sue reticenze sul Coronavirus dovremo fare i conti e quel che succede a Hong Kong non ci piace affatto, ma continuiamo a coltivare con Pechino ottimi rapporti economici e commerciali. Non c’è la benché minima possibilità che gli europei aumentino i loro contributi alle spese della NATO e il solo proporlo, in tempi di pandemia e di depressione economica, è una provocazione.
Una bella sfilza di no a Donald Trump e Angela Merkel sembra aver ritrovato la verve politica d’una volta. Il primo luglio comincia il semestre tedesco di presidenza del Consiglio UE durante il quale la cancelliera dovrà riuscire a portare a compimento il Next Generation EU (NGEU), quel Piano Marshall per la ripresa dell’Europa senza (e un po’ contro) l’America che ha messo in piedi insieme con Macron e con la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, tedesca, et pour cause, pure lei. Ora, pare proprio che sulle risorse del programma si vada profilando tra le due sponde dell’Atlantico una divaricazione degli interessi destinata a sfociare in scontro aperto tra Bruxelles e l’attuale amministrazione di Washington.
Obbligazioni comuni europee
Vediamo come e perché. Il NGEU, com’è noto, dovrà essere finanziato con l’emissione di obbligazioni europee garantite dal bilancio pluriennale dell’Unione. Il bilancio attuale però è assolutamente insufficiente alla bisogna e deve essere aumentato. Poiché è improponibile, più che mai in questi tempi, chiedere un aumento dei contributi nazionali, l’incremento deve avvenire con la crescita delle risorse proprie. La Commissione, facendo intendere che studiando se ne potrebbero individuare molte altre, per ora ne ha evocate tre: una tassa sull’uso della plastica, una su merci e servizi prodotti con l’uso del carbone e la cosiddetta webtax, ovvero l’eliminazione dell’elusione fiscale per la quale i giganti dell’informatica ora come ora pagano imposte irrisorie sui loro fatturati in Europa. Finora l’amministrazione Trump ha sempre diffidato gli europei ad avviarsi su questa terza strada, minacciando fuoco e fiamme in materia di dazi e ritorsioni varie, e non pare che le sue recenti liti con Twitter altri social media abbiano influito sul suo atteggiamento. Quando si tratta di soldi, miliardi di dollari, certe suscettibilità si smorzano.
Anche perché dietro all’intenzione delle istituzioni europee a ricorrere a un aumento delle risorse proprie si profila, per ora indistinto e quasi esorcizzato, un altro fantasma che inquieta non poco gli americani: la tassa sulle transazioni finanziarie, quella che un tempo fu chiamata Tobin Tax. Se n’è parlato molto qualche anno fa, nel pieno della grande crisi del debito, e si sono fatti anche calcoli molto promettenti: l’imposizione di una tassa, anche minima (sullo zero-virgola-qualcosa) su ogni operazione frutterebbe, data la mole di transazioni sui mercati europei, considerevoli entrate nelle casse comunitarie. L’anno scorso il ministro delle Finanze tedesche, il socialdemocratico Olaf Scholz, aveva chiesto che l’Unione l’adottasse con una aliquota dello 0,2% a partire dal 2021 e, almeno sul momento, non aveva incontrato grandi opposizioni. C’è da pensare che il discorso riprenderà ora che la presidenza verrà assunta proprio dalla Germania. Il tema, azzarda qualcuno, potrebbe essere già all’ordine del giorno del primo vertice del semestre tedesco e cioè il Consiglio europeo straordinario che il presidente del Consiglio stesso, Charles Michel, si appresterebbe a convocare per metà luglio dando già per scontato che il vertice ordinario che si terrà il 18 e 19 giugno (l’ultimo, si presume, in videoconferenza) non farà in tempo a discutere e approvare il NGEU, considerate le resistenze opposte dai cosiddetti paesi frugali, Austria, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia, cui si sono aggiunti almeno due del gruppo di Višegrad: Ungheria e Polonia.
Riforma dei mercati finanziari
La grande finanza internazionale è in linea di massima contraria alla tassazione europea delle transazioni e massimamente contraria è la finanza americana. Non solo per ragioni di bottega, ma anche perché un intervento strutturale di quella natura potrebbe preludere all’apertura di un processo di revisione delle regole (e dell’assenza di regole) degli attuali mercati finanziari: l’inizio della fine di quel laissez faire monetarista che ha privato governi e istituzioni europee degli strumenti di controllo e programmazione dell’economia. Quelli che proprio la tragedia della pandemia ha mostrato invece essere assolutamente necessari. E che – va aggiunto – l’Unione europea sta in qualche modo cercando di recuperare con i suoi programmi di ripresa fondati, finalmente, sul principio della condivisione del debito.

Al quadro degli scontri, in essere e in preparazione, tra l’Europa e l’attuale amministrazione Usa va aggiunto un altro elemento, che riguarda in profondità le divergenze di approccio ideologico e culturale alla politica tra le due sponde dell’Atlantico.
Il proposito espresso da Trump di far scendere in campo l’esercito per riportare l’ordine nelle città sconvolte dalle proteste contro l’uccisione di George Floyd turba l’opinione pubblica dei paesi europei, ma – c’è da ritenere – ha acceso più di una preoccupazione pure nelle cancellerie degli alleati nella NATO. Anche solo l’eventualità che quel che ha già fatto e fa la Turchia, utilizzando l’esercito inglobato nei comandi dell’alleanza per reprimere i nemici interni al regime, venga ripetuto dal Grande Alleato per eccellenza può avere un effetto fortemente destabilizzante. Forse anche la consapevolezza di un simile rischio contribuisce a spiegare l’asprezza con la quale il Segretario alla Difesa Mark Esper ha rigettato l’ipotesi di Trump. Ecco, servito sul piatto delle evidenze, un altro motivo per cui in Europa si apra una discussione sulla NATO.
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