I “mi ricordo” di Giulio Einaudi tra la luce di Pintor e il mutismo di Pavese
Anticipiamo un brano del libro di Federica Montevecchi, “Frammenti di futuro” ( Edizioni Pendragon, in libreria venerdì 27) che contiene, tra gli altri, i “mi ricordo” di Giulio Einaudi che pubblichiamo, raccolti dall’autrice nel 1995 a Torino presso la sede della casa editrice..
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Quando in un libro, di poesia o di prosa, una frase, una parola, ti riporta ad altre immagini, ad altri ricordi, provocando circuiti fantastici, allora, solo allora, risplende il valore di un testo. Al pari di un quadro, scultura o monumento quel testo ti arricchisce non solo nell’immediato, ma ti muta nell’essenza.
(Giulio Einaudi, Frammenti di memoria, Rizzoli, pagina 100)

Mi ricordo
un’infanzia felice. È importante che lo sia stata, considerando che in quell’età si formano le basi della vita, che si definisce piano piano a partire dalla gestazione. Quando penso ai miei anni infantili mi viene da associarli al colore azzurro.
Mi ricordo
che mi piaceva uccidere le formiche, distruggere i formicai, e che scendevo le colline cantando, pur essendo stonato.
Mi ricordo
che quando ero piccolissimo, avrò avuto 4 o 5 anni, alla mia famiglia vennero assegnati sei prigionieri austriaci: in quel tempo c’era l’uso di affidare i prigionieri austriaci alle famiglie di campagna ritenute tranquille e sicure. Io giocavo sempre con i prigionieri nostri ospiti e stavo con loro anche quando lavoravano perché li consideravo miei amici. Il tedesco, però, non l’ho mai imparato.
Mi ricordo
che mio padre era molto austero, riusciva a intimidire con lo sguardo. Mai che dicesse una parola, mai che accennasse a qualcosa. Mia madre invece era affettuosa, soprattutto con me: aveva il carattere opposto a quello di mio padre.
Mi ricordo
la giovinezza come l’età in cui si prende posizione. Se non si è individui piatti da aspirare soltanto al posto di lavoro sicuro per tutta la vita, se si ha un ideale, un interesse forte, la giovinezza è il periodo più bello e decisivo dell’esistenza, quello in cui la formazione del bambino diventa posizione nei confronti del mondo. È l’età blu, per me.
Mi ricordo
che la passione per i libri mi nacque dal fatto che la casa dove vivevo era in realtà una biblioteca. L’odore della carta, la vita in mezzo a libri pregiati mi ha fatto venire il vizio della carta stampata. Più che un lettore o uno studioso, io sono uno che per i libri prova proprio un amore fisico e a trasmettermelo è stata la casa dove sono cresciuto. È per questo che fin dagli anni giovanili mi è venuto in mente di fare i libri.
Mi ricordo
che quando cominciai a fare l’editore non ero ancora esperto nel riconoscere il valore di uno scritto e così decisi di attorniarmi di un gruppo di amici che mi aiutavano. Con il tempo, poi, mi sono reso indipendente nel giudicare le proposte che ricevevo dagli scrittori e pian piano si sono rafforzati sia la mia cultura sia il mio criterio di valutazione.
Mi ricordo
che prima dell’editore volevo fare l’agricoltore, ma mio padre me lo ha impedito, infatti non volle che mi iscrivessi ad Agraria sostenendo che non era una vera facoltà universitaria. Allora mi sono iscritto a Scienze: all’inizio ne ero ammaliato, soprattutto mi interessava la botanica. Poi, stufo anche delle scienze, mi sono messo a studiare medicina, ma pur avendo sostenuto tutti gli esami non mi sono mai laureato, perché il relatore della mia tesi di laurea morì. In ogni caso gli studi mi sono serviti per rinviare il servizio militare.
Mi ricordo
che durante il servizio militare ci facevano cantare in coro certe canzoni idiote e io allora cantavo a squarciagola quello che mi veniva in mente.
Mi ricordo
che alla guerra ho partecipato per pochi giorni e quando la guerra di fatto era finita: facevo già l’editore e avevo licenze molto lunghe. Quando fui richiamato al fronte occidentale, la compagnia cui ero stato assegnato era in punizione perché fuggita di fronte al nemico, mentre le altre compagnie sfondavano le linee. Per questo tutti i giorni come sanzione dovevamo scalare una montagna e ridiscenderla: questa è stata la mia partecipazione alla guerra, nella quale però ho perso molti amici.
Mi ricordo
la Resistenza come un periodo entusiasmante, nonostante la mia partecipazione sia stata molto mitizzata: in realtà sono stato pochi mesi in montagna senza correre grandi pericoli, mentre altri miei amici purtroppo sono rimasti intrappolati e uccisi.
Mi ricordo
quando nel 1935 a Torino ci fu la retata dell’OVRA in cui vennero arrestati intellettuali appartenenti a “Giustizia e Libertà”, alcuni erano molto attivi, altri erano coinvolti soltanto idealmente. Di questo gruppo face vano parte Massimo Mila e Vittorio Foa, che a differenza di me, hanno pagato i loro ideali con il carcere. Io, infatti, pur facendo parte del gruppo non volevo compromettermi troppo perché avevo una casa editrice e dovevo fare i conti con il mio pubblico.
Mi ricordo
come la guerra e il dopoguerra siano stati per me periodi di profonda solitudine, perché mi pareva che tutti mi fuggissero. A liberarmi da questa oppressione fu Giaime Pintor, che mi fece capire che il nostro movimento aveva un seguito e che non dovevamo sentirci soltanto un piccolo gruppo di intellettuali, circuiti da tutti. Giaime Pintor era una persona eccezionale: teneva i contatti con tutti, era molto aperto, amante della cultura, traduttore di liriche fin dall’età giovanile. Per me rappresentava un punto di riferimento anche culturale perché conosceva tutte le novità e portava proposte di nuovi libri: era davvero molto intelligente e straordinario.

Mi ricordo
che, se Pintor era la luce, Pavese rappresentava invece il mutismo. Insomma era un piemontese, un uomo di poche parole che quando non sapeva che fare andava a casa di Natalia Ginzburg e là si sedeva in un angolo in silenzio attorcigliandosi i capelli, poi tornava via senza dire niente. Era davvero difficile comunicare con lui. Un anno lo invitai in montagna pur sapendo che lui la odiava, perché così lontana dallo spazio aperto della collina. Quando si trattò di rientrare in città, volle scendere a piedi facendo ben trenta chilometri per arrivare in pianura: era un orso bisbetico, amava soltanto la collina, forse al mare era un po’ più dolce e riusciva persino ad avere degli amori.
Mi ricordo
che una volta facendo una passeggiata in montagna, con un amico incontrammo una ragazza che ci invitò a casa sua. Accettammo l’invito e invece che in una casa ci trovammo in un castello, con tanto di camerieri in livrea. Quella ragazza è stata il mio primo amore: un primo amore all’inverso ma comunque gradevole. In ogni caso penso che l’amore sia una gran delusione.

Mi ricordo
che una volta una ragazza mi invitò alla messa di Natale e poi a casa sua a bere una cioccolata. Io non sapevo che, secondo la tradizione, quell’invito rappresentava una specie di fidanzamento: quando mi accorsi della situazione scappai a gambe levate.
Mi ricordo
la maturità come una continuazione e un approfondimento della giovinezza. Secondo me è l’età più proficua della vita perché si raccoglie ciò che si è seminato, se si è seminato. Io ho raccolto moltissimo di spirituale, mentre da un punto di vista economico è andata un po’ peggio, purtroppo. Ora, da quando sono vecchio, penso che la vecchiaia sia un’età in cui se si hanno interessi si rimane giovani. Per questo si deve esercitare la curiosità di conoscere a ogni costo ed esorcizzare la morte, alla quale non si deve pensare molto, sperando soltanto che arrivi veloce e senza sofferenza.
Mi ricordo
e mi ricorderò sempre tre persone straordinarie nella loro diversità: Giaime Pintor, Cesare Pavese e Leone Ginzburg.
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Giulio Einaudi. Fondatore nel 1933 dell’omonima casa editrice, nacque a Torino nel 1912 da una famiglia alto borghese – il padre Luigi, economista autorevole, fu prima Governatore della Banca d’Italia e poi secondo presidente della Repubblica. Nel capoluogo piemontese Giulio Einaudi frequentò il liceo D’Azeglio dove conobbe i futuri intellettuali che lo accompagneranno nella sua storia di editore di riferimento del secondo dopoguerra democratico, cioè giovani come Massimo Mila, Cesare Pavese, Vittorio Foa, Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, con i quali condivise anche l’impegno politico e la lotta antifascista.
Dopo decenni di successi editoriali, negli anni Ottanta del Novecento Einaudi dovette cedere la casa editrice che, in seguito a un breve periodo di amministrazione controllata, venne acquistata nel 1994 dal gruppo editoriale Mondadori. Egli mantenne, tuttavia, la carica di presidente di fatto fino alla morte, avvenuta nel 1999 a Magliano Sabina.
Su Einaudi e la casa editrice:
G. Einaudi, Frammenti di memoria, Rizzoli, Milano 1988.
S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Theoria, Roma-Napoli 1991.
L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
http://www.einaudi.it/.
Il testo pubblicato è tratto dal libro
Federica Montevecchi
Frammenti di futuro. Ricordi di donne e uomini del Novecento
Edizioni Pendragon
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