I Måneskin? Certo sono bravi davvero
(anche a mettere in crisi i pregiudizi)
“Sono bravi.” È tutto, o quasi, quello che critici musicali, musicisti, opinionisti sembrano poter dire sui Måneskin, sottraendosi all’obbligo di rispondere a tante altre domande, più o meno maliziose (“sono un bluff?”, “dureranno?”, e soprattutto “come si spiega il loro successo?”). Bravi come? Bravi quanto? Esiste un criterio universale di bravura, valido attraverso le arti e i generi? In realtà, è facile cogliere il vero significato del giudizio, la sua formulazione sottostante: “Almeno sono bravi”. Che è come dire che i Måneskin sanno cantare e suonare, e dunque meritano un successo che non è dovuto soprattutto ad altre forze (l’industria musicale, i media, i social media, l’eventuale dabbenaggine del pubblico e della critica). Sono “bravi”, non sono i Monkees o i Milli Vanilli (quelli che furono costretti a restituire il loro Grammy Award, quando si scoprì che nei loro dischi cantavano degli altri). Benissimo. Ma non ci si può accontentare di un giudizio che potrebbe accomunare decine e decine di gruppi sparsi in tutta Italia (ed Europa, e nelle Americhe), efficacissimi nel riprodurre uno stile e un sound codificati da decenni. Un adolescente che si mette a suonare la chitarra elettrica oggi ha a disposizione manuali, tutorial in rete, riviste specializzate, un’offerta di centinaia di chitarre, amplificatori ed effetti di buona qualità anche a basso prezzo, ordinabili su Internet, docenti a loro volta formati in questo contesto: se dopo tre anni non è capace di suonare assoli alla Jimmy Page, Steve Vai o Eddie Van Halen, se non sa tutto sui power chords e sul tapping e su come far scena con una Stratocaster in mano (possibilmente sdrucita, consumata dalla vita on the road) si vede che non ha talento. Questo per quanto riguarda la bravura, anche degli altri tre. Bravi, sì. La laconicità e la pochezza dei giudizi critici, però, si spiega anche in altri modi. La parte più consistente del successo dei Måneskin mette in crisi alcuni sistemi di valori ormai incancreniti nel giornalismo italiano, musicale e non musicale. Il gruppo ha vinto a Sanremo e all’Eurovision Song Contest. E come può venirne fuori qualcosa di buono? L’Eurofestival, una boiata pazzesca, dominio incontrastato di un pop mainstream, inautentico, tutto coreografie e scenografie.
E allora Salvador Sobral?
Davvero? Se ne fossero usciti anche soltanto gli Abba, non ci si dovrebbe ripensare un attimo? E non ci si è accorti che nel 2017 il Contest è stato vinto, con un numero di voti record, mai superato, da Salvador Sobral, cantante e ora anche autore portoghese, che da allora è considerato un artista di punta nella canzone d’autore internazionale? E non ci si è accorti che nell’edizione vinta dai Måneskin, quasi fino all’ultimo, la vittoria era contesa fra la rappresentante della Francia (Barbara Pravi) e quello della Svizzera (Gjon’s Tears), che avevano portato canzoni intime, intense, per nulla scenografiche o coreografiche, degne di un Club Tenco d’altri tempi? E quanto a Sanremo, “Zitti e buoni” non corrisponde al cliché della canzone “da Festival”, così come definito fin dalla prima edizione del 1951, ma non è certo l’unica eccezione, a meno che di Sanremo non si abbia l’idea monolitica e retorica che si è consolidata negli anni dopo il 1967. È vero che a Sanremo il rock è stato quasi sempre edulcorato, pettinato (e dire che secoli fa parteciparono anche gli Yardbirds), e che perlopiù finiva in fondo alla classifica, ma l’idea che una vittoria a Sanremo e una all’Eurofestival significhino che “il rock non morirà mai” è abbastanza pretenziosa. Che lo urli Damiano nel microfono è un conto, che ci si debba credere è un altro.
Boy bands
E qui, nella balbuzie dei giudizi, scattano i paragoni. Prima coi Led Zeppelin (quindi con un gruppo hard rock ormai canonizzato, non con i tantissimi altri che per stile assomigliano di più ai Måneskin), poi con i Beatles. Ahiahi. Perché per i nostri “esperti” l’ascesa irresistibile del gruppo romano ricorda quella dei primi Beatles, che anzi, in fondo, erano una boy band… Rimescolamento delle viscere, per chi sappia un minimo di storia della popular music. Una boy band (il termine è entrato nel gergo industriale e critico negli anni Novanta) è “un gruppo vocale formato da giovani cantanti maschi, di solito teenagers o ventenni al momento della formazione, che cantano canzoni d’amore per un mercato di ragazze. Molte boy bands danzano oltre che cantare, con esibizioni molto coreografiche” (mia traduzione da Wikipedia). Erano boy bands negli anni Sessanta (ante litteram) gli Osmonds e i Jackson Five, e nei Novanta e primi Duemila Take That, Backstreet Boys, NSYNC, Boyzone, eccetera. I Beatles suonavano, cantavano, e non ballavano, come quasi tutti i gruppi della British Invasion. Erano “bravi”. Soprattutto, insieme a qualche cover, scrivevano le proprie canzoni. Ma qualcuno di questi “esperti” è mai stato a un concerto dei Beatles, degli Animals, dei Rolling Stones, dei Kinks, degli Who? Ci sono centinaia di filmati su YouTube: come non capire la differenza con i Backstreet Boys, e con i Måneskin? I quali ultimi meritano di essere protetti dalle sciocchezze messe in giro da “esperti” che tentano soprattutto di confermarsi come presunti tali. Intanto, i Måneskin scrivano più canzoni, si creino uno stile davvero proprio, e per quanto possibile si inventino un sound (oggi è più difficile che nel 1964-67, purtroppo). Noi siamo pazienti e ricettivi.
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