I giovani contano
troppo poco,
ma è colpa loro?

La crisi presente, cominciata come crisi sanitaria, sta cominciando a mostrare tutti i suoi risvolti di carattere sociale, economico e politico. In pratica sta mettendo in luce, esacerbandole, le debolezze già presenti nella nostra società. Una di queste debolezze è indubbiamente lo scarso ruolo dei giovani e la scarsa attenzione che si ha nei loro confronti.

Ovviamente la categoria “giovani”, di per sé, vuol dire molto poco, specialmente in un momento storico in cui il passaggio dalla gioventù alla vita adulta è sempre più sfumato.

Occorre quindi innanzitutto chiarire chi siano i giovani, di chi si stia parlando.

Chi sono i giovani? È certamente giovane chi sta svolgendo ancora il suo percorso a livello scolastico e, per i più fortunati, universitario; è giovane chi ha cominciato presto a lavorare e ora è già riuscito a consolidare il proprio posto di lavoro; è anche giovane chi un lavoro non ce l’ha, lo ha avuto, lo sta cercando o ce l’ha ma questo lavoro non gli permette di rendersi realmente indipendente dalla famiglia d’origine. La categoria più numerosa è forse quest’ultima, e su di essa va quindi concentrata la nostra attenzione.

Manca un ruolo soddisfacente

Ora, anche tale gruppo andrebbe scomposto a seconda del reddito famigliare, del titolo di studio e molti altri fattori: ciò che però accomuna tutti coloro che ne fanno parte è il non aver ancora trovato un ruolo attivo e minimamente soddisfacente nella società.

La condizione di sospensione e disorientamento, di ricerca di una propria posizione sociale, qualunque essa sia, è ciò che definisce l’essere “giovane”, e forse è proprio questa la chiave di lettura per spiegare come mai l’essere “giovani”, anziché una condizione transitoria e biologica, stia diventando una situazione costitutiva e sostanziale, lunga e sfumata: per potersi definire nelle società moderne, socialmente e quindi individualmente, occorre sempre più tempo.

Ciò è tanto più vero in Italia, dove la formazione scolastica dura di più, il legame tra università e mercato del lavoro è labile e le aziende, per dimensioni o volontà, hanno difficoltà a fare formazione. I giovani sono inoltre pochi in termini demografici, disorganizzati a livello politico e dunque ininfluenti.

Questa è la situazione attuale, al di là della crisi che stiamo vivendo. alla quale però va aggiunto un tassello paradossale: i giovani di oggi sono quelli che hanno avuto occasioni di formazione, apprendimento, viaggio e incontro che non erano date a coloro che giovani erano anche solo cinquant’anni fa. Questa generazione è la più preparata, formata, attenta, informata e colta della storia, almeno a livello quantitativo.

E allora bisogna porsi una domanda: per quali ragioni queste energie non vengono sfruttate? Per quali ragioni chi può va all’estero e assottiglia la già misera schiera di laureati che il nostro paese forma ogni anno? Perché, pur essendo così formati, non lo sono abbastanza per ottenere un proprio ruolo definito e dunque “smettere” di essere giovani?

Hanno i giovani, come gruppo sociale, delle colpe in questo?

Come incide la pandemia

E’ in questo contesto che si inserisce il coronavirus.

La caratteristica principale della crisi attuale è la dilatazione del tempo, il passaggio da una società senza tempo ad una in cui il tempo abbonda, o meglio, in cui esso è sospeso.

Quella del tempo sospeso è però precisamente la condizione del giovane, che, non avendo ancora nulla di definito davanti, vive nell’attesa che le cose si muovano, che qualche curriculum venga accettato, che qualche concorso pubblico si svolga, che il tirocinio mal pagato finisca, che il lavoretto da poche centinaia di euro al mese si riveli solo come un lavoro di passaggio.

Dunque la crisi da coronavirus non fa che esacerbare una condizione che è strutturale della maggior parte dei giovani italiani: l’indeterminatezza, l’attesa di un futuro che non sembra mai arrivare, il passaggio da un lavoretto all’altro, da una laurea all’altra, da un certificato all’altro in nella speranza che infine qualcuno conceda loro la pace di un lavoro stabile e dignitosamente retribuito.

Il senso dell’attesa, comune in questi mesi a tutta la società, è quindi maggiormente sentito dal giovane, che vorrebbe muoversi, fare, lavorare, viaggiare, instaurare relazioni, e che invece non può.

D’altro canto questa non può essere una scusante: i giovani, come gruppo sociale, hanno il dovere di farsi sentire.

E qui interviene un problema molto più subdolo e poco percepito, che riguarda i giovani ma in generale tutta la vita politica e democratica dei paesi occidentali.

La deriva dell’individualismo

La società in cui siamo nati ci ha insegnato che la realizzazione dell’individuo avviene solamente a livello individuale: è dunque colpa del singolo se egli non trova lavoro o il suo lavoro è miseramente remunerato, o non si è formato abbastanza o la formazione che ha avuto non era “spendibile nel mercato del lavoro”.

Dunque le difficoltà dell’essere giovane, di trovare un proprio ruolo nel mondo, viene vissuta, quando di successo come realizzazione, quando di insuccesso come colpa, ma sempre individualmente.

Ora, tutta la retorica ottimistica sul coronavirus legge la crisi presente come una opportunità palingenetica per ristrutturare la nostra società e raddrizzarne le storture, i paragoni con la Seconda guerra mondiale si sprecano.

Questo ottimismo rimane tuttavia insensato, poiché mancano i partiti politici capaci di raccogliere le energie della società, e dei giovani in primis, per rendere effettivo questo cambiamento.

Mancano le strutture e mancano le capacità politiche, di idee tecniche ce ne sono moltissime, esattamente il contrario del secondo dopoguerra.

Disinteresse per la politica

Spesso si denuncia il pesunto disinteresse dei giovani per la politica. Non si tratta di disinteresse, anzi, moltissimi giovani si impegnano nel sociale, fanno viaggi di volontariato in giro per il mondo, si informano, si indignano. Il punto è che lo fanno come singoli, vivono quelle occasioni come momenti di arricchimento personale e, soprattutto, non trovano alcun luogo dove veicolare la propria indignazione e la propria rabbia per una società che è chiaramente percepita come ineguale e ingiusta poiché sono incapaci di pensarsi come soggetto politico.

Questo problema non interroga soltanto i giovani, ma tutta la nostra società: le idee su come ripartire non mancano, esistono i luoghi in cui esse sono formulate. Al tempo stesso la struttura costituzionale e democratica del nostro paese sarebbe pronta per mettere in atto le misure proposte. Quello che manca è la capacità di noi cittadini, giovani e meno giovani, di fare pressione politica sui partiti, magari anche dall’interno, per rendere reali tali proposte, data l’incapacità dei partiti stessi di coinvolgere la società che dovrebbero rappresentare.

È dunque inutile aspettarsi che questa crisi di per es stessa cambi qualcosa, per la società e per i giovani: soltanto se si ricomincerà a pensarsi come comunità e non come singoli in competizione tra loro e il cui successo o insuccesso è responsabilità individuale si potrà davvero modificare la condizione giovanile in Italia e, direi, la condizione stessa del paese.

La buona notizia è che questa è davvero la generazione più colta e sensibile della nostra storia nazionale: non appena comprenderà che non nell’individuo ma nel gruppo sta la sua speranza di salvezza allora le cose cominceranno davvero a cambiare. E saremo noi a decidere come.Una condizione difficile aggravata al tempo del virus