Tutti i danni
del referendum propositivo
Quando a proporlo si azzardò Craxi, la cultura giuridica insorse contro il pericolo plebiscitario incombente. Del resto, anche Gianfranco Miglio in quegli anni pensava che proprio attraverso l’istituto del referendum propositivo si potesse finalmente rompere la gabbia del parlamentarismo e far saltare così, con uno “sbrego”, l’odiata repubblica dei partiti. Ora il referendum propositivo è diventato parte integrante dell’agenda di governo, ma scarse sono le reazioni della cultura democratica.
Sull’Espresso e Repubblica anzi si plaude alla grande riforma grillina con la penna di Ainis. La cosa non sorprende, in passato egli fu il teorico del costituzionalismo populista con il recall, la non-elezione dei senatori tramite il sorteggio nonché l’investitura diretta di ben due capi dello Stato. E però lascia perplessi che anche l’opposizione sia orientata verso una strategia di riduzione del danno (precisazione di un quorum e restrizione delle materie oggetto del quesito).
Anche se i partiti non esistono più, e quindi la repubblica versa senza fondamento, il referendum propositivo è un ulteriore indebolimento della democrazia rappresentativa. Dinanzi al momento populista che domina nelle istituzioni e nelle credenze, la difesa della forma rappresentativa (che già prevede leggi di iniziativa popolare) è l’imperativo centrale per una cultura delle regole che non si rassegna alla deriva illiberale del sistema.
Il fatto stesso che sia stato inventato un ministero per la democrazia diretta è un’anomalia formale che si pone in stridente contraddizione con l’ordinamento costituzionale che prevede espliciti “limiti” (cioè anzitutto la rappresentanza) nell’esercizio dei pubblici poteri. E’ evidente che, nella filosofia dei riformatori, il referendum propositivo si inserisce in una prospettiva più generale di accantonamento della rappresentanza (parlamento, partiti, sindacati) ritenuta una macchina istituzionale ormai obsoleta.
L’ipotesi “direttista”, con formule seducenti che in apparenza aprono al potere ritrovato del popolo nella deliberazione, in realtà chiude ancor più i gracili ambiti della politica organizzata entro la morente costituzione repubblicana. Il referendum propositivo è a tutti gli effetti il compimento del disegno della disintermediazione e quindi un tassello per edificare una democrazia minore.
Lo schema peraltro è ben conosciuto nella storia delle istituzioni. In America la funzione dei partiti-macchina fu, già sul finire dell’800, osteggiata in nome delle miracolose facoltà di iniziativa da consegnare al cittadino. Tutte le stagioni del “populismo” americano (convention, primarie, referendum) coincidono con la metafisica del cittadino cui cedere lo scettro per sottrarlo a quello monopolizzato dalle organizzazioni che espropriano i singoli di facoltà decisionali e presenza libera nello spazio pubblico.
Come ha rilevato un autorevole politologo come T. J. Lowi (B. Ginsberg, T. J. Lowi, M. Weir, R. J. Spitzer, We the People. An Introduction to American Politics, New York, 2010, p. 258) in America si riscontra il paradosso di riforme nate per sostenere il direttismo e ben presto tramutatesi in meccanismi incontrollabili che conferiscono un maggiore dominio ai grandi gruppi privati dell’economia capitalistica.
Oltre alle primarie, al recall, “anche l’iniziativa popolare fu promossa dai populisti in nome del governo diretto del popolo e come un antidoto all’influenza dei gruppi di interesse nel processo legislativo. Ironia della sorte, molti studi hanno spiegato che la maggior parte delle campagne di iniziativa popolare oggi sono in realtà sponsorizzate dai gruppi di interesse (assicurazioni, compagnie del tabacco) che così cercano di eludere l’opposizione legislativa ai loro scopi. Il ruolo dei gruppi di interesse non dovrebbe sorprendere, dal momento che tali campagne possono costare milioni di dollari”.
Nell’Italia che ha inventato i partiti azienda, i partiti personali, i non-partiti della Casaleggio, con il parlamento già da tempo ridotto al silenzio, umiliato nelle sue attribuzioni costituzionali al punto da dover votare la finanziaria senza neppure un testo scritto, l’ammiccamento per la democrazia diretta e il referendum propositivo copre un ulteriore processo di espropriazione della democrazia formale a favore dei proprietari delle piattaforme, delle aziende mediatiche.
Il silenzio di certe voci del costituzionalismo, sedotto alle urne dal verbo grillino, spiega che nel 2016 aver difeso la carta in compagnia dei due populismi oggi al potere è stato come “mettere un’aquila dallo stomaco vuoto a difesa del pollaio contro l’astore affamato” (Shakespeare). E così uno dei partner sogna con il referendum la chiusura del parlamento e l’altro, con il plebiscito celebrato nella Padania, la destrutturazione della forma di Stato con l’autonomia differenziata delle regioni del nord.
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