Hacker e millennial fuori dal mito
Spesso non hanno vere competenze

Mi colpisce sempre il modo in cui vengono rappresentati gli hacker nelle serie televisive. Battono sulla tastiera di un pc a velocità vertiginosa, mentre sullo schermo scorrono quantità impressionanti di dati, ai quali danno un’occhiata distratta ogni tanto, eppure riconoscendo al volo quelle due o tre righe di codice che stanno al cuore di un virus informatico micidiale e dell’intera vicenda narrata. Io, devo dire, non ne ho mai visti.

Ho conosciuto programmatori di bravura eccezionale, progettisti di sistemi che hanno rivoluzionato il mondo dell’informatica (o anche il mondo, tout court), ma non mi sembra che facessero così. Intanto, spesso si fermavano a scorrere il testo sullo schermo, ci pensavano su, prendevano appunti (con carta e penna) e consultavano manuali, poi ricominciavano. E non battevano sui tasti come se stessero facendo una gara. Immagino, è possibile, che davvero chi sta cercando di violare un sistema – come invariabilmente avviene nelle serie televisive – debba essere veloce per evitare di essere “buttato fuori”: ma è proprio così? È sempre così? Mi ricordo che quando lavoravo in quel campo (non dell’hackeraggio: della programmazione, dell’ingegneria dei sistemi) vedevo dei colleghi che battevano sulla tastiera velocemente, ma avvicinandomi mi rendevo conto che uno dei tasti che premevano più spesso era “canc” o “del”, e dicevo loro: “Ma se battessi più lentamente, prestando più attenzione a dove metti le dita, forse non faresti tanti errori e non dovresti correggerli.” Inutile, perché già allora battere velocemente era cool.

Quando si parla dei millennial e delle loro competenze, dovute primariamente al fatto che sono cresciuti già nell’“era digitale”, l’immagine sullo sfondo è quella degli hacker seriali. Un/una millennial non saprebbe comporre un numero su un vecchio telefono a disco, fa fatica a far partire un giradischi (anche se per ascoltare un amatissimo e modaiolo vinile: una ragazza, vedendomi tirare il braccio di una fonovaligia verso l’esterno, mi fermò dicendomi: “Ma così lo rompi!”), ma saprebbe craccare in pochi minuti i sistemi del Pentagono. Temo che non sia la verità.

I millennial che vedo quasi ogni giorno all’università o in accademie varie sicuramente sanno usare uno smartphone. Quanto? Non lo so: abbastanza per usare le app preferite, da Facebook a Whatsapp a Instagram a Shazam. L’email? Mmm, qualche volta. Molti non hanno un pc, o per lo meno non glielo vedo utilizzare. Messi alla prova, per lo più mostrano di non saper dominare decentemente le più banali applicazioni da ufficio (Word, Excel, eccetera), hanno idee molto vaghe di come si organizzi un albero di directories. La nozione di database è quasi sconosciuta. A parte i miei studenti di informatica, temo di non conoscerne nessuno che saprebbe scrivere un programmino per scrivere sullo schermo “Hello world”. Sto parlando di una larga maggioranza.

Esistono alcuni che hanno competenze avanzate, che usano applicazioni di editing audio o video, o di ritocco fotografico, che sanno impaginare un articolo, una rivista online, un libro. Alcuni (soprattutto le millennial) leggono anche dei libri. Certi (pochi) giocano con C++, con Java, con XML. Ma non ho mai la sensazione di avere a che fare con una generazione nella quale le competenze tecnologiche e informatiche siano universalmente diffuse, in una proporzione maggiore rispetto a venti o trent’anni fa. Per avere quella sensazione (fasulla) devo leggere i giornali, guardare la televisione, navigare su Internet. Allora sì, mi prende l’angoscia che i venti-trentenni di oggi la sappiano lunghissima, e che noialtri (dai quarant’anni in su) siamo degli incapaci e degli ignoranti. E quindi, richiamando un dibattito recente, una pseudo-élite inconsistente, che non ha i mezzi per affrontare la modernità digitale.

Eppure Federico Faggin, il progettista del primo microprocessore commerciale, è nato nel 1941, Steve Jobs e Bill Gates (inutile che ricordi chi sono) nel 1955. Steve Furber, progettista insieme a due altri tecnici-tecniche (uno ha cambiato sesso: oggi si chiama Sophie Wilson, ed è del 1957) dell’ARM, il primo microprocessore RISC  (Reduced Instruction Set Computer), che fa funzionare quasi tutti gli smartphone esistenti e del quale sono stati prodotti più di cento miliardi di esemplari, è del 1953. Tiene a far notare (guardate la sua pagina di Wikipedia) che suona il basso. Un secolo fa lo accompagnai in un giro di presentazioni dell’ARM in università e centri di ricerca in Italia: in macchina parlavamo molto di chitarristi folk inglesi. Roba analogica, naturalmente.

Ma perché si parla tanto di millennials? Per ragioni serie, in realtà: perché chi è cresciuto in un mondo digitalizzato ha incorporato pratiche, gestualità, modi di interagire con strumenti e macchine che hanno una forma diversa rispetto agli equivalenti (se esistevano) analogici. Ma non si può andare molto oltre: usare un apparecchio e conoscerne a fondo il funzionamento non sono la stessa cosa. Non tutti quelli che hanno la patente saprebbero anche solo cambiare una lampadina fulminata della loro auto: perché invece chi è nato dagli anni Novanta in poi dovrebbe avere la scienza infusa? Forse chi si occupa (anche troppo) dei giovani sui media dovrebbe farsi queste domande. Come per tutte le generazioni, analogiche o digitali, i giovani vanno aiutati a crescere, non vezzeggiati. Se i giornali, la radio e la televisione degli anni Sessanta avessero continuato a magnificare l’intelligenza, la modernità, la creatività dei “capelloni”, ci sarebbe mai stato il Sessantotto? Ah be’, forse è per quello…