Guido Monti, quei versi privati nel fuoco delle guerre

“La verità è che tu questo film non lo vuoi finire perché là fuori c’è la vita vera che ti aspetta” recita a un certo punto uno dei personaggi del nuovo film di Gabriele Salvatores in uscita nelle prossime settimane. Ora, cosa sia la vita vera all’interno della nostra stabilità è estremamente complicato da definire, soprattutto da quando si è inserita una parte virtuale nel nostro equilibrio reale.
Su questo molti si sono espressi: Vilém Flusser, ad esempio, profetizza che l’uomo con i suoi dispositivi digitali vive oggi la “vita immateriale” di domani. Esistono degli antidoti a questa immaterialità, a questa impossibilità di toccare le cose? Se ne era occupato già parecchi anni fa lo scrittore inglese Philip Larkin, poeta tra i meno tradizionali del Novecento e forse per questo (tematiche e stile certamente non di basso profilo) in costante interesse tra le nuove generazioni, una sorta di corrispettivo di Carver o David Foster Wallace della poesia anglofona.

Dagli stessi presupposti parte Guido Monti col suo Le stanze, una citazione di Larkin, e in particolare Finestre alte apre il libro, per poi sviluppare il senso stesso dell’opera nel primo testo

Inizio primavera, ora incerta, siamo lì avanti al camino
annerito, pensiamo di farlo riardere ma non è cosa facile
umido ovunque, timore anche di disseppellire il passato
ma questa bimba con i suoi forza, dai!! ci incita all’impresa

andiamo alla legnaia – i rametti – dice – dai prendiamoli!! –
torniamo con le mani scorticate, per accenderli, i rametti
– ecco l’acero!! – alza il suo legnino stretto al palmo

infuoco il giornale s’ illumina lo stipite, ardono i titoli
delle stragi che camminano in Siria con parole senza storia
rialzo lo sguardo e lei è ancora lì, mi passa l’ultima foglietta
la boccuccia ha colorata degli oli di ogni rinascimento

continua la fiamma, metto dentro l’Economist
coi grafici che bruciano violetti poi i vecchi Reader’s Digest
ma il fuoco si rifà piccino e torna lo spazio cinerino di camino
e memoria tanto è inutile rimestarla la memoria.

E proprio ora intendo qual è stato l’attimo bello Nina
quel tuo andirivieni, che ha fatto nuovo il vecchio
la sterpaia verdissima e il tempo curvo sulla casa
uno spazio ancora aperto alle luci là in alto
anche se di fuori la ferocia ci assedia ma anche
il tuo sorriso che qui gira e rigira ci assedia e dilaga.

 

Il verso sulla guerra in Siria si inserisce all’interno di un passaggio famigliare e privato che si ritroverà in buona parte del libro. Guido Monti incede su un percorso reale, vive sentimenti concreti, evita qualsiasi aspetto di maschera e si trova così a fare i conti con la realtà “aderente” (la terra d’origine, gli affetti, anche l’amore), ma il tutto sempre inserito in un contesto complessivo. Monti si smarca da una modalità consolidata negli ultimi anni, nei suoi testi non c’è disforia, il modello sociale e umano è quello che proviene da un passato nemmeno troppo lontano, e quello che colpisce è che appunto il modello funziona.
Non è necessario sempre doversi attaccare a qualcosa di impossibile o di insuperabile. Ogni luogo, anche tra le mille difficoltà e complicazioni, può essere vissuto recuperando la carta -mai banale- dell’umanità. All’interno di questo modello diventa disforica invece la vera guerra, la povertà, la miseria, quella che sta lontana da noi, in Siria piuttosto che in Ucraina o, ad esempio, in tantissimi stati africani di cui si continua a parlare pochissimo.

In questo scenario, tolta una sorta di borghese non accettazione della perfezione, a vincere sono modelli collettivi di imperfezione che però restituiscono un’inaspettata gioia di fondo in cui l’impegno diventa allargare la fascia di serenità sociale, che spesso nelle nostre vite non siamo in grado di intravedere.

 

 

Il mio Borges

in memoria di Gianni

Mi chiedo senza la tua mano, cosa sarei stato
in quegli anni di fin di secolo quando il consumismo
oramai logoro si rialzava furtivo dentro i primi rivoli
digitali e sgretolava di nuovo il senso di una comunità

senza la tua parola che al mondo dava costruzione,
cosa sarei divenuto? Forse un ripetitore seriale
dei pomeriggi alcolici o uno scarruffato ragazzo
tutto astrazione o violento ideologico.

E invece altro io fui dietro i tuoi occhi che parlavano
di letteratura applicata alla vita, tanto che tu ultimo
amico in vita di Pasolini cacciavi con l’obliquo sorrisino
gli avventori che giungevano alla tua bottega
avidi di ragione li cacciavi sofisticamente

altro io divenni quel novembre di fin di secolo
quando la tua voce si ruppe leggendo come un breviario
la pagina del viaggio al termine della notte, altro a sentirla
quella voce spezzata in frammenti, parole, tempi.

E se poi da te mi allontanai per le beghe di ogni
amicizia, perdono chiedo alla tua ombra sempre
più piccina come dentro un monocolo su questa
strada maggiore

perdono ombra mia dantesca che talvolta mi giri
d’attorno, se scappai e toccato da debolezza non fui
al tuo funerale e abbandonai quello studio a spirale
borgesiana, pozzo di verità vaganti colto forse dal peccato
di superbia che tu tanto mi insegnasti a ricacciare da ogni mio me

e spero Gianni di riveder un giorno il tuo sorriso magari
in forma di parola, proprio ora che in questo foglio si sparge
e risale come laica preghiera sul tuo irreversibile silenzio.

 

 

Guido Monti

Le stanze

peQuod, Ancona 2022.