Gregoretti, la cultura e l’ironia
per rivoluzionare la televisione

Intervistare Ugo Gregoretti era meglio che andare al cinema. Uno spasso. Uno degli uomini più spiritosi che si potessero incontrare. Personalmente – e credo sia giusto ricordarla in questa sede, voi lettori di Strisciarossa potete apprezzare – non dimenticherò mai quando mi raccontò, nel corso di un’intervista, come si era iscritto al Pci. Avvenne nel 1970. Lui era ovviamente un simpatizzante, ma l’idea della tessera lo lasciava perplesso. Si recò a casa sua una delegazione di cineasti già membri del Partito, capeggiata da Citto Maselli, compagno duro e puro. Gli fecero un vero e proprio comizio sull’importanza dell’impegno, sugli intellettuali organici, sul potere rivoluzionario del cinema: il solito menù. Ugo, che come già detto svicolava, pensò di cavarsela con una “punch-line” davvero folgorante. Li guardò tutti, uno per uno, e disse: “Compagni, ma come può iscriversi al Pci uno come me che ha 800 cravatte?”. Pensava di avercela fatta, ma aveva sottovalutato l’umorismo e la prontezza di spirito di Maselli, che gli rispose con una “punch-line” ancora migliore: “Ma il compagno Louis Aragon ne ha più di mille!”. Di fronte alla collezione di cravatte del grande poeta, iscritto al Pc francese, Ugo crollò e il Pci guadagnò una tessera.

Ugo Gregoretti è morto a Roma a nemmeno 89 anni: era nato, sempre a Roma, il 28 settembre 1930. La famiglia però era napoletana, di estrazione nobiliare, molto ricca. Non sarà un caso che nel 1960, a trent’anni, il giovane Ugo fu a suo agio nel firmare un bel documentario, “La Sicilia del Gattopardo”, in cui si parlava di un nobile – Tomasi di Lampedusa – e che fu visionato da un altro nobile, Luchino Visconti, prima di girare il suo celeberrimo film nel 1963. Nel frattempo Gregoretti era entrato in Rai, nel 1953, prima ancora che la tv nascesse (c’era solo la radio). E fu nella Rai dei primi anni ’60 che Ugo, assieme a una prestigiosa banda di intellettuali neo-assunti (Umberto Eco, Furio Colombo, Piero Angela, Fabiano Fabiani, Angelo Guglielmi, Gianni Vattimo, Enrico Vaime), cominciò a scompigliare la parrucca di una tv pubblica monopolista e tradizionalista.

Anche se avevo solo 10 anni (era l’inverno del ’68, anno cruciale) conservo un ricordo indelebile del suo capolavoro “Il circolo Pickwick”. Era uno sceneggiato rivoluzionario: l’Inghilterra di Dickens veniva ricreata con ironia attraverso un metalinguaggio che in Rai non s’era mai visto. Le scene erano ovviamente in costume, ma tra i personaggi si aggirava lo stesso Gregoretti in abiti moderni, seguito da una troupe Rai in bella vista, come se fosse un inviato del telegiornale nell’Ottocento. L’effetto era spiazzante, “brechtiano”, divertentissimo. I quattro membri del circolo erano interpretati da Mario Pisu (Pickwick), Leopoldo Trieste (Snodgrass), Gigi Ballista (Winkle) e Guido Alberti (Tupman), ma colui che emergeva prepotentemente era un ventisettenne Gigi Proietti nel ruolo dell’imbroglione Jingle. Era lui che cantava la canzoncina della sigla, accompagnato alla chitarra nientepopòdimenoche da Lucio Battisti: e in quella canzoncina che in tanti sappiamo ancora canticchiare (“Là nella vecchia Inghilterra / nelle campagne del Sud”…) i quattro borghesi in viaggio di studio erano definiti “matusa”, collocando di diritto “Il circolo Pickwick” nel cuore della temperie sessantottina.

Proietti sarebbe tornato a lavorare con Gregoretti in un altro sceneggiato strepitoso e anomalo, una rilettura comica di Salgari, “La tigre di Mompracem”, in cui era addirittura Sandokan! Era il ’74, e Salgari sarebbe tornato sugli schermi tv due anni dopo nell’altrettanto leggendario “Sandokan” di Sergio Sollima, quello con Kabir Bedi. È difficile immaginare oggi cos’era, la Rai di quegli anni: un moloch controllato dalla politica nel quale però, soprattutto nei programmi culturali, era possibile creare un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni (il ’68 è anche l’anno della famosa “Odissea” introdotta da Ungaretti e del musical western-politico “Non cantare spara”…). Mentre reinventava la tv, Gregoretti sognava però il cinema, anche se poi avrebbe confessato (al Bif&st di Bari, qualche anno fa): “Perché ho girato così pochi film? Perché per molti ero un miserabile rospo che usciva dal pantano maleodorante delle disprezzatissima tv, osando fare un salto nell’Olimpo del cinema”. Vanno comunque ricordati “I nuovi angeli” (1962) e “Omicron” (1963), i documentari militanti “Apollon” (1969) e “Contratto” (1970), l’episodio “Il pollo ruspante” nel film collettivo “Ro.Go.Pa.G.” nel quale Ugo era l’ultima G del titolo-sigla, dove le altre iniziali stavano – scusate se è poco! – Rossellini, Godard e Pasolini. Anni dopo avrebbe girato l’autobiografico “Maggio Musicale” (1990).

Gregoretti è stato regista televisivo e teatrale, attore, scrittore, giornalista, documentarista, regista di opere liriche, organizzatore culturale, direttore di festival, presidente dell’Anac (l’associazione degli autori di cinema). Al di là delle cravatte (sue e di Aragon), il suo essere di sinistra si nasconde proprio lì, nella curiosità, nella capacità di osservare le cose individuandone sempre un lato nascosto ai più. “Intellettuale”, oggi, è quasi una parolaccia. “Intellettuale di sinistra” sarà presto, probabilmente, un reato. Ugo è stato uno dei pochi, nell’Italia del dopoguerra, a dare un senso al tempo stesso nobile e leggero a queste definizioni. In tanti, oggi, dovrebbero prendere esempio da lui.