180 mila posti a rischio. Di Maio se ne occuperà?

Dopo una settimana di forte turbolenza sui mercati e di preoccupante allargamento del differenziale dei rendimenti dei nostri Btp contro i Bund tedeschi, il nuovo ministro dell’Economia, Giovanni Tria ha cercato di rassicurare gli osservatori e gli investitori. In un’intervista al Corriere della Sera ha negato che esista un piano italiano per uscire dall’euro, o per chiedere la cancellazione di parte del debito pubblico, non ha preso impegni sull’immediata realizzazione di alcune promesse elettorali assai costose (reddito di cittadinanza, legge Fornero, flat tax), ha certo criticato alcune rigidità europee e ha chiesto garbatamente alla Ue più spazio per gli investimenti escludendo tale voce dal debito. Toni concilianti, niente insulti o attacchi scomposti come usano fare gli azionisti di maggioranza del governo, leghisti e grillini.

Le parole di Tria sono state improntate alla prudenza e alla saggezza e la sua posizione, c’è da scommetterci, non dispiacerebbe all’ex ministro dell’Economia Giancarlo Padoan o al candidato premier per un week end Carlo Cottarelli. L’atteggiamento responsabile di Tria, tuttavia, si scontra con gli annunci roboanti di alcuni ministri che si dichiarano pronti a realizzare subito il reddito di cittadinanza, a nazionalizzare l’Alitalia o a chiudere l’Ilva senza avere ben chiaro cosa significherebbero per i conti e per l’economia nazionale iniziative di questo genere. Il nostro bilancio, nonostante la crescita del Pil, non consente voli pindarici. Il debito rimane su livelli allarmanti e una caduta di fiducia degli investitori stranieri che sottoscrivono i nostri titoli pubblici avrebbe effetti catastrofici. Anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha messo in chiaro che non bisogna fare passi azzardati altrimenti c’è il burrone che ci aspetta.

Non è certo che le parole di Tria possano tranquillizzare definitivamente i mercati e i risparmiatori, ci sono ancora troppe variabili, troppe incertezze nelle ricette economiche dei due partiti di maggioranza. Il leghista Siri, consulente di Salvini per i temi fiscali che ha patteggiato una condanna a due anni per bancarotta, ha confermato la volontà di procedere velocemente all’introduzione della flat tax al 15% dopo un più veloce condono rubricato come pace fiscale. Una riforma fiscale di questo tenore costerebbe circa 60 miliardi di euro, altri 16 miliardi sarebbero destinati al reddito di cittadinanza, 5 miliardi annui per il superamento della legge Fornero sulle pensioni. Si tratta di stime, di dati assai provvisori. A queste cifre andrebbero aggiunti gli investimenti (teorici) per la famiglia ipotizzati nel “contratto”, l’eventuale nazionalizzazione (un’altra volta!) di Alitalia, per non parlare della ventilata chiusura e riconversione dell’Ilva e di altre idee originali. In più il governo, Di Maio lo ha giurato ai commercianti, sterilizzerà l’aumento dell’Iva che costa 12,4 miliardi per quest’anno e altri 19 miliardi per il 2020. Il complesso dei provvedimenti del nuovo governo costerebbe ben più di 100 miliardi di euro.

Inoltre, se la propaganda dei neofiti al governo abbassasse i toni, bisognerebbe iniziare a operare per la soluzione di problemi concreti. Di Maio, che raccoglie nelle sue mani le deleghe del Welfare e dello Sviluppo economico manco fosse Galbraith, dovrebbe occuparsi dei dossier delle imprese in crisi che mettono a rischio complessivamente 180mila posti di lavoro sul territorio nazionale. Come sostenere lo sviluppo e creare nuova occupazione? Come generare risorse e spingere le imprese a investire? Se Marchionne cesserà di produrre a Pomigliano d’Arco o a Melfi auto di massa, cosa dirà Di Maio? Capirà che per l’Italia c’è una nuova fregatura in arrivo? Si tratta di un esercizio molto concreto per una forza politica che vuole cambiare il Paese attraverso il governo.