Scuola, giusto protestare ma il problema non è l’esame di maturità

Va da sé che è giusto completare un ciclo di studi, e quindi ottenere un diploma, affrontando verifiche efficaci e complete, scritte e orali. Tanto più se queste prove vengono in parte proposte dagli stessi insegnanti che hanno seguito la classe durante l’anno, tenendo conto quindi degli ostacoli affrontati con le ondate pandemiche. Se davvero si crede nel valore dello studio, nella dignità della scuola pubblica e dei titoli che essa riconosce, è difficile derogare a questo principio.

Eppure le proteste degli studenti vanno prese in seria considerazione. La loro opposizione alla decisione di tornare con gradualità a un esame di maturità dell’era pre-Covid dice qualcosa di più che un semplice no a un tema di italiano o a una traduzione di latino. Le manifestazioni e i cortei, respinti addirittura anche con la violenza, raccontano di una “next generation” italiana che ha visto ben poco delle magnifiche sorti promesse con i nuovi investimenti in arrivo dall’Europa. Chi, come me, è entrato nel mondo della scuola proprio nell’anno della pandemia, è stato costretto a confrontarsi con ritardi pesantissimi del sistema, deflagrati come una bomba a orologeria sotto la pressione dell’emergenza.

Niente fondi, si va in Dad

Aule piccole e sovraffollate, edifici vecchi, difficoltà di collegamenti alla rete internet (ho sempre usato il mio cellulare come hotspot per le lezioni a distanza), computer spesso fuori uso e carenza di personale tecnico, pochi soldi per pagare più insegnanti e bidelli. Sembra un dettaglio secondario, ma è proprio la carenza di fondi per il personale che ha impedito ad esempio di fare turni mattino/pomeriggio durante il lockdown, costringendo alla Dad che per i meno fortunati ha significato seguire la lezione magari in cucina, mentre la mamma preparava il pranzo e il fratellino giocava, perché l’altra stanza era occupata dal padre in telelavoro.

Nonostante tutto questo, la scuola è riuscita ad andare avanti. Durante l’emergenza non ha avuto neanche un minuto di sosta tutta quella sovrastruttura di progetti, piani, relazioni che ogni ministro da 30 anni a questa parte ha pensato bene di infilare nella quotidianità scolastica. Ogni giorno a verificare se il tale o il tal altro studente ha un certificato sui bisogni speciali, e quindi programmi e verifiche individualizzati; se quello o l’altro studente deve ancora terminare le ore di alternanza scuola-lavoro, se le ore di educazione civica (ultima novità introdotta) sono sufficienti con le relative verifiche (che si aggiungono alle prove della materia).

E poi, schede sui criteri di valutazione dei compiti (non sia mai che qualcuno faccia ricorso e non abbiamo la scheda!), e non ci dimentichiamo i power point, i video, le canzoni, i film (impensabile spiegare Shakespeare senza foto e videoclip, giochi virtuali, mind map e time-line), la metodologia, la programmazione ex ante e il programma svolto ex post, il recupero durante l’anno per chi è indietro, i colloqui con le famiglie. Una fantasmagoria di incombenze che da settembre a luglio si gonfia come una bolla speculativa, con “scambi” sempre più frenetici e insensati che paradossalmente seppelliscono il fulcro essenziale del ruolo di un insegnante: educare e formare gli studenti a uno spirito critico.

Soffocati dalla burocrazia

Con l’arrivo dei vaccini se possibile è andata anche peggio. La scuola in presenza per molti studenti pendolari ha significato prendere treni stracolmi, per assistere a lezioni con classi dimezzate dall’ondata omicron e lezioni a dir poco “improbabili”: contemporaneamente in presenza e a distanza per chi è in quarantena. Peccato che una lezione così sia impossibile per qualsiasi educatore serio.

Con la caterva di regolamenti (2 infetti in classe, 5 infetti in classe) sono arrivate anche le indicazioni giornaliere, dalle 10 di sera alle 6 di mattina, su chi dovesse collegarsi a distanza per ogni classe, in base alle informazioni delle famiglie. Intanto l’unica barriera al virus sono state le finestre aperte (!): neanche i fondi per purificatori. Per superare le carenze dei trasporti, alle superiori si è deciso di imporre due orari di ingresso, con il risultato che per alcuni studenti le lezioni terminano intorno alle 15.30. Per chi viaggia significa tornare a casa intorno alle 5 di pomeriggio, dopo aver sgranocchiato un cracker comprato al distributore automatico.

Chi non protesterebbe al posto loro? Chi non sarebbe “arrabbiato”, come dicono i giovani in piazza, per il poco rispetto tenuto nei confronti della scuola? Chi non si opporrebbe a questo supposto ritorno a una normalità in realtà ancora lontana?

E poi parliamo di verifiche

Tuttavia è ben strano che in questo scenario le legittime proteste esplodano proprio sull’esame di maturità. Molte cose non funzionano, ma il punto centrale è che il rapporto con le verifiche, con le prove da superare, sembra per i ragazzi insormontabile. Durante l’anno sono capaci di mettere in atto una congerie di iniziative, anche le più fantasiose, per strappare qualche voto in più sfuggendo alla verifica.

Mi sono dovuta confrontare con svenimenti, attacchi d’ansia, reazioni inconsulte di fronte a voti negativi. Non basta la rassicurazione che un voto si può correggere, può migliorare con una prova successiva magari anche facilitata. No, molte famiglie chiedono un eterno successo, un percorso chiuso, senza incrinature. E loro replicano a volte con l’ansia, a volte con la furbizia, altre ancora con una rete difensiva fatta di defatiganti negoziazioni (se mi chiede la grammatica allora niente letteratura? Accetta i volontari, o chiama lei?).

Quello che davvero bisogna chiedersi è il perché davanti a un testo, a una domanda, a quella che oggi si chiama la “consegna”, loro restino spaesati e disorientati. Perché fuori da quella giostra di immagini in cui oggi è stato tradotto il trasferimento di conoscenze (guardare un qualsiasi libro di testo per credere), fuori dalle app del telefonino (senza il quale pare mancargli l’ossigeno), fuori dalla musica dei kahoot (una piattaforma di test online) che lanciano coriandoli a chi risponde bene alle domande, fuori da questa maionese impazzita che ormai scambia gli strumenti educativi con la sostanza (tutto computer, test e video), gli studenti si perdono. Davanti a un semplice testo scritto, davanti ai dialoghi di Dickens, alle descrizioni di Manzoni, alle metafore di Shakespeare, agli endecasillabi di Dante loro restano disarmati e impauriti. Non accade in ogni scuola così, intendiamoci. Ma c’è molto, davvero molto da fare per rifondare la comunità scolastica.