Odio e figure archetipiche a Inisherin. “Gli spiriti dell’isola” di McDonagh, tra Shakespeare e fratelli Coen
Quale odio o risentimento è più tenace e cocciutamente destinato al sangue di quello che divide amici, vicini, fratelli? Irlanda, 1923, sta divampando la guerra civile tra gli Staters, favorevoli allo Stato (quasi) Libero nato due anni prima alla fine della guerra d’indipendenza, e l’Ira, l’Irish Republican Army, con tutto un plus di atrocità irreparabile, arcaica, da tragedia greca.
Nella piccola isola immaginaria di Inisherin arriva l’eco di bombe e cannonate, la vita scorre con cadenze pastorali, tutti conoscono i fatti di tutti e ci si ferisce a morte con parole affilate. Un pomeriggio Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell), sempliciotto a fronte bassa che vive con la sorella Siobhán (Kerry Condon), non trova in casa come al solito l’amico giurato Colm Doherty (Brendan Gleeson: maestoso) e lo cerca al pub, una specie di saloon del vecchio West, per la solita pinta di scura. Colm è già lì e non gli rivolge parola. Pádraic – sta per Patrizio in gaelico – lo sollecita: “Ti ho forse fatto arrabbiare? Ho detto qualcosa di sbagliato?”. Colm lo gela: “No, è che non mi vai più a genio”.
La mitica banhees
A mezzo tra Čechov e l’assurdo beckettiano, il cinquantaduenne Martin McDonagh, premiato drammaturgo, regista e sceneggiatore d’ascendenza irlandese, innesca così “Gli spiriti dell’isola”, “The Banshees of Inisherin” nell’originale, e una banshee, mitica creatura femminile che predice prossime morti, c’è davvero, è l’ammiccante, incartapecorita signora McCormick (Sheila Fitton) con in bocca una pipetta alla Braccio di Ferro. Un dramma intinto nel grottesco con tutto il verde dei prati irlandesi e annesse scogliere vertiginose? Questo e tanto altro.
McDonagh dopo “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” (2017) ha ripreso un vecchio testo teatrale ispirato alle Banshees che aveva accantonato e si è immerso in un microcosmo irlandese malinconico, sospeso tra una terra generosa il giusto e un cielo troppo alto, giocando – con una tenuta scenica ed emotiva straordinaria – su una storia dalla deriva implacabile e dialoghi spesso teatrali, ottimamente “serviti” da Pádraic e dal solitario Colm, felice della sua vita e della compagnia di un’asinella il primo, tormentato e molto meno superficiale il secondo, massiccio e burbero suonatore di violino in cerca di una ragione di vita vera, di una svolta il cui passo d’avvio è la cancellazione dell’amico di sempre, della sua pur affettuosa banalità.
“Nessuno si ricorderà di te fra cinquant’anni” lo inchioda dopo che ha iniziato a insegnare musica del folklore locale a un gruppo di studenti. Pádraic è attonito, rifiuta l’idea che Colm annulli d’un botto la loro antica confidenza e si trasforma in una sorta di irriducibile stalker nonostante la sorella cerchi di sopirne il malmenato orgoglio: “Ma sì, sei sciocco, è vero, ieri mi hai parlato di cosa c’era nella cacca dell’asina”.
Quando l’odio scoppia a Inisherin
Colm non è contro Pádraic, molto peggio: vuol essere senza. Difficile a Inisherin, dove ci si incrocia per amore e per forza. Compassato omone di mille naufragi esistenziali, sopporta sempre meno la goffa petulanza di Pádraic e nella ricerca di una più profonda sensatezza al suo esistere minaccia e attua un gesto insensato: “Ogni volta che mi rivolgerai la parola mi taglierò un dito”. Ed ecco una falange grondante sangue gettata contro la porta di Pádraic, che al pub, luogo delle rese dei conti, prende di petto l’ex amico con una battuta colta implausibile sulle sue labbra ma non in questo film dove l’assurdo aleggia e si traveste da Fato: “Nove dita sono l’epitome della follia”.
Ci sarà poi tra i due, ad accrescere lo straniamento, una disputa sui massimi sistemi con le piatte parole del quotidiano, Colm: “Sei noioso”, Pádraic: “Ma sono una persona gentile”. Gentile a tutto tondo proprio no, dopo nuovi approcci indesiderati, Colm si amputa delle restanti quattro dita della mano sinistra e le lancia contro la porta di Pádraic, l’amata asinella sua tenta di cibarsene e ne resta soffocata.
Segue da parte del tontolone un imprevedibile, vendicativo dies irae e l’escalation si arresterà poco prima del precipizio, annunciando bonaccia, a Inisherin dopotutto si nasce e vive gomito a gomito e uscire da se stessi è complicato se non impossibile. Un soffio di speranza dopo tanta futile tragedia, una tregua dedicata dal regista alle genti d’Irlanda, da pochi anni in marcia – pensiamo al nord dell’isola – verso la pacificazione.
Inisherin continuerà la sua vita quieta e attraversata da una corrente di insania carsica, la banshee locale, erede non indegna delle streghe del Macbeth, predirà le morti a venire. E per suicidio avverrà l’uscita di scena di Dominic Kearney (Barry Keogan), adolescente disfunzionale che si masturba in compagnia del manesco genitore Peadar (Gary Lidon, ributtante q. b.) per volere di quest’ultimo, poliziotto ansioso di assistere a qualche bella esecuzione capitale tra Dublino e dintorni: un perfetto uomo d’ordine.
Dominic è, insieme alla banshee, un altro schietto personaggio scespiriano.
Il fool del villaggio
Parla tra lo sconcio e il saggio (“odio la guerra e il sapone”), molesta fanciulle, ama – è un miraggio – la matura sorella di Pádraic, donna segnata dalla vita e in fuga dalla spietata finta calma piatta di Inisherin. È, sopratutto, il fool del villaggio, poco scemo, molto lucido e disperato. Barry Keogan, con quelli occhietti a spillo che ti guardano sì e no da un sulfureo altrove è perfetto nel ruolo di ambigua coscienza sociale, non lontano dal Martin – una Nemesi con misteriosi poteri – del “Sacrificio del cervo sacro” firmato da Yorgos Lanthimos nel 2017, sempre con Colin Farrell protagonista.
McDonegh ha pescato bene, affollando il set di superattori irlandesi (Farrell, Keogan, Condon) e riformando la coppia Farrell-Gleeson del lungometraggio d’esordio, “In Bruges-La coscienza dell’assassino” (2008), su due sicari irlandesi rifugiati nella città fiamminga, dove l’umorismo marciava a fianco della violenza. In quel cast c’era anche Ralph Fiennes e un’eletta schiera McDonegh aveva egualmente messo insieme nel successivo brillante “7 psicopatici” (2012), un pulp alla Tarantino, satira dell’industria cinematografica americana tra commedia e noir con Woody Harrelson, Christopher Walken, Sam Rockwell, Tom Waits e Colin Farrell (non malaccio la compagnia…). Rockwell e Harrelson convocati pure nel thriller “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, provincia americana, una madre (Frances McDormand!) in aceto con la polizia che accusa di non indagare a modo sull’omicidio della figlia.
Un’atmosfera da disincanto e fioche luci di ottimismo per un meritato successo mondiale. McDormand ci collega ai fratelli Coen (è la moglie di Joel) e alle musiche di Carter Burwell, loro assiduo collaboratore chiamato da McDonegh per “Gli spiriti dell’isola”. Il regista non abbandona i suoi comfort actors e, con una personale punta di “scuro in più”, denuncia affinità coi fratelli Coen nel mood di un cinema in flusso dal sarcastico al dolente, dal buffo all’inesauribile giacimento della follia umana.
Gli animali testimoni
Ne “Gli spiriti dell’isola” ne sono imperturbabili testimoni gli animali di Inisherin, cavalli da tiro, mucche pascolanti, asini, una capra che si prende il lusso di guardare in macchina, quasi volesse chiedere agli spettatori: vi rendete conto della gabbia di matti in cui sono capitata?
“Gli spiriti dell’isola”, quasi due ore di cinema sopraffino girate con efficace sobrietà a Inishmore, nell’arcipelago delle Aran, e nell’isola di Achill, ha già fatto una discreta incetta di premi (Golden Globe per la sceneggiatura, a Venezia Coppa Volpi a Colin Farrell) e ha ricevuto nove candidature ai prossimi Oscar di marzo, McDonagh ne ha vinto uno nel 2004 per il corto “Six Shooter” (ancora Belfast, ancora Brendan Gleeson).
Produce, tra gli altri, la Searchlight Pictures, che distribuisce in Italia, 384 le sale. Segnalazione extra. Ancora rimanendo dalle parti dell’Irlanda spaccata e dell’umano mix di piccola geniale farsa e sovrastante brutalità bombarola, merita deviare dalla visione alla lettura per “Eureka street” (1999), il capolavoro di Robert McLiam Wilson ambientato a Belfast nel ’94, l’amata culla del protestante Chuckie e del cattolico Jake ridotta a campo di battaglia e di mille avventure. Consigliatissimo.
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