Gli “sconfitti” di Stajano: un racconto epico tra sogni, battaglie e fallimenti

Siamo stati sconfitti? Ha senso cercare “un barlume della speranza smarrita”? Oppure la pandemia è una concretissima metafora della nostra débâcle? Proprio la parola Sconfitti dà il titolo all’ultimo libro di Corrado Stajano, classe 1930, giornalista e scrittore, giunto al giro di boa dei 91 anni. Però l’uso di quella parola ha tutta l’aria di non essere l’ammissione di un fallimento, semmai è una provocazione: ammettere la fine di ogni illusione di cambiamento sarebbe devastante per tanti di noi, così come la scomparsa nella nebbia di quell’orizzonte da cui una volta sorgeva il “sol dell’avvenire”.

Per capire forse bisogna emulare per qualche riga l’autore, che – frugando tra i suoi ricordi di cronista e cittadino – usa la prima persona singolare (quindi, se stesso) in gran parte del nuovo libro. Normalmente una recensione non inizia con un ricordo personale del recensore. Però questa volta è opportuno, perché in realtà l’idea di sconfitta non è mai stata la chiave di volta del lavoro di Stajano, né come cronista né come scrittore; semmai lo è stata l’idea di resistenza. Questo è il messaggio che è stato lanciato a tanti che lo hanno letto, anche a me.

Ebbene, nel 1975 mia sorella Maurizia (di dieci anni più grande, fondamentale fornitrice di idee su cui rimuginare) mi regalò una copia del primo libro di Stajano, Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini. Grande prova di un giornalista impegnato a livello civile, tra i precursori della cronaca trasformata in un genere letterario, destinato a vendere 700.000 copie, Il sovversivo è dedicato all’assassinio del giovane nel 1972 a Pisa: quel ragazzo aveva 20 anni quando fu massacrato di botte dopo l’arresto (vi ricorda qualcun altro?) nel corso di una manifestazione; morì nel giro di qualche giorno e non sono mai stati individuati, con nomi e cognomi, i colpevoli. Stajano dopo ha scritto molti altri libri che ho amato (spesso pubblicati con Einaudi, oggi in parte riproposti da il Saggiatore): per citarne alcuni, da Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta (1979) a Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica (1991).

Ogni suo libro ha fornito ottime ragioni – a me e non solo – per non abbandonare l’impegno, per resistere anche di fronte a momenti di sconforto e delusione. Di certo, però, quel primo libro, Il sovversivo fu per me e per tanti altri ragazzi molto formativo, uno dei più importanti nella nostra prima giovinezza. Perché fornì la consapevolezza del dovere di impegnarsi per cambiare le cose, in un periodo in cui, tra i miei 16 e i 17 anni, facevo i primi passi nell’attività politica; ero (anzi, eravamo) durante l’era delle bombe e del piombo, della strategia della tensione e del terrorismo di estrema sinistra e di estrema destra. Il ricordo di quella storia, e la gratitudine nei confronti del giornalista che l’aveva scritta, mi hanno accompagnato e mi accompagnano tuttora.

Ecco che nel 2021 Stajano ha dato alla luce il nuovo libro, Sconfitti; come sempre, qui conduce la sua lotta contro il vizio italiano della dimenticanza. Scrive: “Mi sembra sia venuto il tempo di risuscitarli i ricordi del sanguinante Novecento; riveder storie e destini. Per capire se il funereo contagio caduto nel secolo nuovo è la coda di quei tragici anni”. Pur intrecciandosi con la cronaca quotidiana e con la storia dell’Italia contemporanea, questa volta l’opera di Stajano assume quasi una dimensione onirica rispetto a quelle precedenti

Un libro realistico, dunque, ma anche onirico a cominciare dal modo in cui gli è venuto l’impulso di scrivere: tutto è nato da un suo incubo notturno capitato durante la pandemia di Covid-19, occasione in cui “la tecnologia, somma conquista del secolo, è stata sconfitta dalla metafisica”. Il sogno viene evocato nell’incipit: “Chissà chi è la donna alta, secca, con indosso una tunica nera lunga fino ai piedi, che cammina a passi cadenzati… Ha il viso bianco come fosse impastato di calce, di biacca, di gesso o soltanto cosparso di latte, tiene la testa ritta, gli occhi fissi dinanzi a sé, trascina un carretto di legno, vuoto. Un tragico mino, un fantasma”

Una specie di musa ispiratrice, come emersa dal remake nel XXI secolo della peste manzoniana, che vaga non soltanto nella Milano travolta e stravolta, svuotata dall’emergenza, ma anche nei tanti misteri mai svelati, nei problemi mai risolti di questa nostra Italia. A Concetto Vecchio, su Il Venerdì di Repubblica, lo stesso Stajano ha raccontato di non ricordare mai i sogni: “Ma quella notte mi svegliai e annotai quel che avevo appena sognato. Non avevo intenzione di scrivere un libro, il sogno mi inquietò nel profondo… Il Covid, mi dissi, è una coda del tragico Novecento – due guerre mondiali, la bomba atomica, la Shoah – una coda del passato da ricordare”. Nel volume, il racconto di Stajano parte dai primi mesi della pandemia, per poi recuperare i ricordi di infanzia e la memoria della sua famiglia, dela guerra e della Resistenza; poi il Dopoguerra, il boom economico, gli anni degli attentati e del terrorismo, la lotta contro la mafia con le sue vittime (con un focus su Giovanni Falcone e Carlo Alberto Dalla Chiesa), l’ascesa di Silvio Berlusconi, i cambiamenti nel modo di fare giornalismo (“I giornali di oggi sono diventati pericolosi strumenti del commercio sottoculturale”), l’avvento del Web e dei social; fino ai giorni nostri, incluso l’ultimo “taumaturgico” premier.

Un racconto epico, in prima persona appunto, tra memorie personali ed esperienze professionali. Quasi un percorso dantesco senza rime, lungo tanto inferno e moltissimo purgatorio; con un paradiso che manca all’appello per questo pensoso novantenne col suo carico di ricordi. Il suo Virgilio però non è il fantasma della signora in nero. Ha tanti Virgilio che lo accompagnano a tratti: gli scrittori e i libri che ha amato; i familiari, gli amici e i colleghi che lo hanno accompagnato lungo tratti più o meno lunghi del suo percorso. Per citarne alcuni, da Alessandro Manzoni ad Antonio Gramsci e Silvio Pellico, da Vittorio Foa e Italo Calvino a Tucidide e Boccaccio, da Dickens e Camus; fino a un grande punto di riferimento, Nuto Revelli, scrittore, soldato e partigiano. Sono incluse pure le persone incontrate per caso, come l’anonimo chitarrista che “suona e canta con una voce da basso… su una sedia impagliata di fianco al Duomo di Milano” e – indifferente alle mode – intona Contessa, Per i morti di Reggio Emilia e altri inni della sinistra italiana che fu.

Così Corrado Stajano con questo libro ci fa ripercorrere tutto ciò che ha forgiato la sua personalità e il Paese, nel bene e nel male, durante quasi un secolo di vita vissuta. L’ultimo paragrafo, concluso il 18 marzo 2021, finisce così: “Quanti sconfitti nei loro ideali di libertà e di giustizia ora e nel secolo passato. Quanto fervori spenti… Chi può donarci in questi anni desolati, nel ‘fuoco della vita’ che ci resta, una barlume della speranza smarrita? La bottiglia finora non è arrivata al mare”. Subito dopo conclude con un verso di Eugenio Montale – “L’onda, vuota, si rompe sulla punta, a Finisterre” (da “Su una lettera non scritta”, nella raccolta La bufera e altro, Neri Pozza Editore, Venezia, 1956), dove il poeta evoca un messaggio contenuto dentro la bottiglia gettata nell’oceano e non ancora arrivata a destinazione.

Insomma, si ha voglia di augurarci che – nonostante nell’intervista al Venerdì Stajano abbia detto che gli sconfitti sono “coloro che hanno sperato e lottato inutilmente per un’Italia migliore”, incluso lui – questo libro bellissimo sia stato scritto per passare il testimone, magari ad altri giovani del XXI secolo. Nella consapevolezza che non bisogna mai smettere di lottare e neppure di sognare.