Gli anni Settanta
non furono solo
gli anni di piombo

L’uscita in questi giorni di un bel romanzo di Romolo Bugaro, ambientato nella Padova degli anni Settanta (Non c’è stata nessuna battaglia, Marsilio Editore) può costituire un’occasione per ripensare a quegli anni interrogandoci sulle categorie interpretative attraverso le quali guardiamo a quel periodo e a quello, immediatamente precedente, che lo ha generato (il Sessantotto). La scelta di Bugaro è particolare e rifugge molti cliché degli “anni di piombo” (espressione che compare nel libro una sola volta, a pag. 122). L’autore sembra privilegiare quei cambiamenti negli stili di vita e di consumo dei giovanissimi che affioreranno appieno dagli anni Ottanta. I percorsi dei giovani raccontati nel libro attraversano altre “battaglie”, soprattutto private, e lambiscono soltanto i luoghi e gli eventi che hanno caratterizzato la storia padovana e italiana, generando fratture ancora non ricomposte. Forse l’eredità più cospicua di quegli anni si può rintracciare nell’evoluzione degli stili di vita individuali? O qualcosa rimane anche nelle mobilitazioni collettive? E se qualcosa rimane nella sfera pubblica delle passate stagioni, come interpretarlo.

In un libro tanto denso quanto utile pubblicato più di dieci anni fa (Anni Settanta, Einaudi), Giovanni Moro si chiedeva se il Sessantotto fosse da ricordare quale sorta di “Grande fratello”, di quanto di peggio gli anni Settanta hanno prodotto (in termini di violenza politica), oppure se potesse essere considerato un “fratello grande”, da cui discendono, per gemmazione, processi eterogenei che hanno ampliato nel tempo gli spazi di cittadinanza e partecipazione. Proviamo a riprendere le sue riflessioni e interroghiamoci sopra quale eredità politica sia oggi rintracciabile dei movimenti di cinquant’anni fa. Quattro sono, a nostro avviso, le caratteristiche più rilevanti di quell’ondata di mobilitazione: a) la volontà di protagonismo giovanile, b) la dimensione globale del fenomeno, c) il ruolo dei mass-media nella diffusione delle immagini e ragioni della protesta e d) l’innovazione concernente i diritti, l’ecologia e i modi di concepire la cittadinanza.

In primo luogo, dobbiamo considerare che il protagonismo dei movimenti giovanili: pur non trattandosi di un fenomeno raro nella modernità occidentale (basti pensare all’impatto storico dei fatti del 1848, che nel corso del tempo è divenuto proverbiale), alla fine degli anni ’60 il movimento conosce un’estensione mondiale che si articola anche sotto forma di innovazione culturale e non solo di protesta politica. È sufficiente richiamare alla memoria l’avvio di un nuovo modo di diffondere cultura popolare) e protesta politica (come l’intreccio tra Woodstock e il movimento antimilitarista favorevole al ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam) per sottolineare il nesso tra nuove forme di fruizione culturale e nuove forme di partecipazione politica coltivate dai giovani.

In secondo luogo, il Sessantotto assume molto rapidamente un rilievo globale in virtù dell’esistenza e della diffusione di mass media in grado, per la prima volta, di veicolare immagini e notizie in tempo reale in tutto il mondo. Il ’68 è legato – prima ancora che ai temi sollevati dal movimento – alle immagini di festa e protesta che raffigurano giovani simbolicamente (ma non solo) in procinto di ‘rompere le catene’ del conformismo e del paternalismo autoritario. Le immagini offrono spunti da una parte all’altra del mondo e stimolano un senso di comunanza che altrimenti difficilmente si sarebbe realizzato (si pensi al finale magistrale del film ‘Fragole e sangue’ che, sul canto di Give peace a chance, mostra l’epilogo di una protesta che avrebbe potuto essere localizzata in molte parti del mondo).

Ed è anche grazie alla costruzione di un nuovo immaginario che la mobilitazione si diffonde su scala mondiale in tempi estremamente rapidi – anche se con modi e finalità estremamente diversi. A differenza dei moti del 1848, l’ondata di mobilitazione sessantottina non si limita al solo Occidente: il principale bersaglio della protesta è l’autorità costituita, mentre ad essere valorizzati sono i momenti di condivisione e di ampliamento della partecipazione – sia in contesti democratici, sia in contesti non democratici. Nei paesi dell’Europa orientale, ad esempio, la mobilitazione si traduce in rivolta contro le dittature comuniste a partito unico e contro l’imperialismo sovietico. Queste mobilitazioni risulteranno decisive per la socializzazione politica di segmenti eterogeni di società che si attiveranno poi al momento del crollo del “socialismo reale” nel 1989

Sin dalle prime proteste esplose nei campus americani contro la guerra del Vietnam, i movimenti che poi daranno vita al Sessantotto sono promotori di una critica radicale alle democrazie occidentali postbelliche, ma il loro innesco avviene soprattutto nell’ambito degli studenti universitari, i quali, in un contesto di crescita economica e di relativa mobilità sociale, contestano quanto nella cultura e nella organizzazione della società risulta ancora, a loro giudizio, contrassegnato da autoritarismo e paternalismo, intrecciando la loro mobilitazione con le proteste di soggetti discriminati a causa del genere o dell’etnia (M. Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Carocci). Stein Rokkan ha cercato di contestualizzare le mobilitazioni di fine anni Sessanta, sostenendo che il diffondersi dei movimenti del Sessantotto costituisce uno spartiacque nella storia della politica di massa democratica e nella storia internazionale della sociologia politica. (S. Rokkan, The structuring of Mass Politics in the Smaller European Democracies: A Development Typology, in O. Stammer, Party System, Party Organizations and the Politics of New Masses, Freie Universität Berlin 1968). Pertanto, non si tratterebbe di una fiammata effimera: nella lettura di un attento studioso d’ispirazione rokkaniana, quale Percy Allum, il Sessantotto e la contestazione originerebbero da una specifica giuntura critica, la quale provocherebbe “una nuova frattura sulla questione ecologica, di cui sarebbero protagonisti i nuovi movimenti sociali [originando una contrapposizione] ambiente contro sviluppo industriale”.

​E oggi come possiamo valutare l’impatto sulla nostra società dell’eredità del Sessantotto? È vero che le radici di quei movimenti affondano in fermenti (pacifisti, ambientalisti, femministi) presenti già negli anni Quaranta del Novecento, sovente nel grembo degli stessi partiti di massa o, comunque, non in contrapposizione ad essi e che – a differenza dei movimenti sorti in giunture critiche precedenti – i partiti che scaturiscono dal sedimentarsi delle mobilitazioni post Sessantotto sono circoscrivibili soprattutto alle neoformazioni ambientaliste. Tuttavia, anche se raramente producono nuovi partiti, si tratta di movimenti che cambiano le culture politiche già presenti nella società. Secondo analisti come Ronald Inglehart dagli anni Sessanta sarebbe in corso una “rivoluzione silenziosa” nelle culture politiche occidentali, in seguito all’irruzione sulla ribalta pubblica di una generazione “post-materialista” concentrata su questioni relative allo stile di vita individuale (La rivoluzione silenziosa, Rizzoli). Molte delle questioni (riguardo al genere, la sessualità, gli stili di vita alternativi) poste dai movimenti sorti in quel periodo sono penetrate gradualmente nei programmi dei principali partiti della sinistra europea, provocando – secondo le interpretazioni di alcuni studiosi – un cambiamento tale da causare la nascita di una nuova destra, più radicale e tradizionalista, proprio quale reazione all’affermazione di temi libertari nelle agende politiche dei principali paesi occidentali. ((P. Ignazi, The silente counter-revolution. Hypoteses on the emergence of extreme right parties in Europe, in “European Journal of Political Research”, XXII, I, 1992, pp. 3-34). Su questo aspetto specifico ci pare che debba essere condotto fino in fondo il dibattito nei partiti e nei movimenti di sinistra sulle interpretazioni proposte da autori quali Richard Rorty o Cristopher Lash sulla difficoltà della sinistra a tenere assieme le rivendicazioni originate dall’affermazione di nuovi stili di vita con la funzione storica della sinistra di tutelare il mondo del lavoro e combattere la diseguaglianza economica, di combinare la tutela dei diritti delle minoranze con il consenso della maggioranza, e da Robert Putnam sulla necessità di ripensare e promuovere politiche in grado di rafforzare l’inclusione sociale e il senso di comunità civica.

Nello stesso tempo, ci pare opportuno rivisitare – ed entro certi termini rivendicare – il senso dei cambiamenti che sono scaturiti dalla stagione dei movimenti degli anni Sessanta, anche nel nostro Paese. Riguardo al quale, la lettura “post-materialista” di Inglehart andrebbe quanto meno relativizzata. Infatti, l’impegno per sanare situazioni quali le fogne a cielo aperto nelle borgate romane – opportunamente ricordate da Moro nel suo libro – non ha molto di “post-materialista”. Così come la saldatura della mobilitazione studentesca con quella operaia, favorita anche dall’atteggiamento del PCI che è l’unico grande partito della sinistra europea a tentare di costruire un rapporto, sebbene difficile, con i movimenti del Sessantotto. È il caso di ricordare che, in Italia, le mobilitazioni del 1968 si sono saldate con quelle del 1969.

Proprio il 1969 può essere considerato un anno cruciale nella storia del nostro Paese, come ha opportunamente ricordato Ilaria Romeo in questa sede, il 7 aprile scorso. Nel 1969 alle mobilitazioni degli studenti si aggiungono quelle operaie, che conducono all’ottenimento di migliori condizioni salariali e lavorative, quale anticipazione di quanto avverrà l’anno successivo con l’introduzione dello “Statuto dei lavoratori”. Il 30 aprile di quell’anno viene varata la riforma delle pensioni voluta dal socialista Giacomo Brodolini e l’11 dicembre viene liberalizzato l’accesso dell’Università a tutti i diplomati, con un provvedimento promosso, anche in questo caso, da un deputato socialista, Tristano Codignola. Ma il 1969 è anche l’anno in cui irrompono sulla pubblica ribalta le bombe. Il 15 aprile, a Padova, un ordigno piazzato da estremisti di destra esplode nello studio di Enrico Opocher, filosofo del diritto e Rettore dell’Università, ex partigiano del Partito d’Azione e fautore del dialogo con gli studenti. È solo il prodromo di attentati molto più cruenti: venerdì 12 dicembre 1969 una bomba esplode nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, uccidendo 17 persone e ferendone altre 90. Se gli anni Sessanta trasmettono al decennio successivo una pluriforme effervescenza sociale, questo passaggio è caratterizzato in Italia dall’ombra delle stragi, che accompagnerà a lungo e dolorosamente la storia del nostro Paese.

Per questo motivo la definizione “anni di piombo” non ci pare la più adeguata per comprendere quel ciclo di eventi. Perché, a differenza degli altri Paesi, l’Italia ha conosciuto anche il fenomeno dello stragismo, con il corollario di depistaggi e opacità che lo accompagnerà per molti anni. Eppure, nonostante il piombo e il tritolo, il nostro Paese ha conosciuto una stagione intensa di cambiamenti, anche contraddittori, che deve essere ricostruita e considerata con attenzione. Nel libro di Giovanni Moro vi è un lungo elenco di riforme, varate nei più diversi campi nel periodo fra il 1969 e il 1979, per via legislativa o giurisdizionale, che hanno contribuito a cambiare il volto della società italiana. L’elenco di tali riforme, correlato alle mobilitazioni sociali che le hanno accompagnate, rendono pienamente comprensibile l’invito a distinguere le differenti eredità del Sessantotto proposta da Giovanni Moro, da cui segue l’esigenza di una lettura che non rimandi solo al ricordo delle manifestazioni dell’estremismo politico (che pure ci furono e non debbono essere dimenticate), ma che ricostruisca la presenza in quegli anni, spesso meno appariscente, ma feconda, di molteplici fermenti innovativi nel mondo delle professioni, della scuola e dell’università.

Per tali ragioni lo stesso Moro vede nel Sessantotto “l’inizio di un grande movimento di democratizzazione, pubblica come privata, che negli anni Settanta ha consentito al paese di cominciare a liberarsi di strutture obsolete, di forme di autoritarismo, di provincialismo culturale e molto altro”. Le eredità di quel periodo possono essere ritrovate non solo nell’evoluzione degli stili individuali di vita e di consumo, bensì anche nella mobilitazione delle donne, nelle manifestazioni per la cura dei contesti territoriali aggrediti da scelte ambientali miopi, nelle organizzazioni di cittadini che si battono per diritti misconosciuti o per la tutela di beni pubblici minacciati.